LA GRANDE MADRE a cura di Deborah Mega


Nel nome della Madre
Statuetta di pietra nota come Venere di Willendorf  risalente al Neolitico e ritrovata in Austria, rappresenta una dea madre. La sua figura esagerata nelle rotondità, evidenzia la funzione femminile della procreazione.

Perché io sono colei che è prima e ultima
Io sono colei che è venerata e disprezzata,
Io sono colei che è prostituta e santa,

Io sono sposa e vergine,
Io sono madre e figlia,
Io sono le braccia di mia madre,
Io sono sterile, eppure sono numerosi i miei figli,
Io sono donna sposata e nubile,
Io sono Colei che dà alla luce e Colei che non ha mai partorito,
Io sono colei che consola dei dolori del parto.
Io sono sposa e sposo,
E il mio uomo nutrì la mia fertilità,
Io sono Madre di mio padre,
Io sono sorella di mio marito,
Ed egli è il figlio che ho respinto.
Rispettatemi sempre,
Poiché io sono colei che dà Scandalo e colei che Santifica.
Inno a Iside
Rinvenuto a Nag Hammadi, Egitto;
risalente al III-IV secolo a.C.
Agli albori della civiltà umana la prima dea ad essere venerata fu la Grande Madre, la donna procreatrice che donava la vita e consentiva la sopravvivenza del figlio nutrendolo col suo latte. Chi meglio di una donna poteva assurgere a simbolo creativo per eccellenza? La donna, in grado di mettere al mondo nuovi esseri viventi, era considerata portatrice di un potere misterioso: il mistero del concepimento e dell'allattamento infatti spinse gli uomini primitivi a venerare colei che dava la vita partorendo un essere umano e che gli consentiva di continuare a vivere fuori dal suo grembo. Ella rappresentava la Terra che dava frutti, la Luna con le sue fasi, le stagioni, il ciclo della vita e la morte. Rappresentava l'origine e la fecondità: il suo ventre rotondo e capiente simboleggiava la capacità di donare la vita trattenendo dentro di sè il frutto fino alla sua maturazione. Le mammelle gonfie rappresentavano la sopravvivenza: dopo aver donato la vita, la donna garantiva il cibo per sua stessa natura. La donna è depositaria dunque della capacità che ha le caratteristiche del prodigio di “creare” e poi trasformare attraverso il sangue, simbolo di vita e di generazione e poi il latte, simbolo e strumento di nutrimento per la preservazione della “specie”. Dalla ciclicità del mestruo femminile derivò la coscienza dello scorrere del tempo: il primo calendario era lunare anziché solare, in esso l’anno era composto da tredici mesi corrispondenti ai tredici cicli mestruali delle donne.



La Venere di Laussel (Dordogna, Francia), è una Venere paleolitica alta circa 46 cm, scolpita in un bassorilievo e trovata all’entrata di una grotta cerimoniale. Originariamente era dipinta in rosso, colore sacro del sangue e della vita. Nella mano destra regge un corno di bisonte a forma di falce di luna, con 13 tacche incise a simboleggiare il numero di lune o il numero di cicli mestruali in un anno. La mano sinistra poggiata sul ventre indica la relazione fra il ciclo lunare e quello della fecondità femminile.
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by Kamil Vojnar


Secondo Jung l'archetipo della Grande Madre è «La magica autorità del femminile, la saggezza e l'elevatezza spirituale che trascende i limiti dell'intelletto; ciò che è benevolo, protettivo, tollerante; ciò che favorisce la crescita, la fecondità, la nutrizione; i luoghi della magica trasformazione, della rinascita; l'istinto o l'impulso soccorrevole; ciò che è segreto, occulto, tenebroso; l'abisso, il mondo dei morti; ciò che divora, seduce, intossica; ciò che genera angoscia, l'ineluttabile». I miti e le pratiche religiose dei popoli primitivi, basavano i loro principi su una corrispondenza simbolica : donna = cerchio = conchiglia = vaso = mondo. Il vaso è infatti ciò che meglio rappresenta la funzione del femminile di contenere e custodire la vita, di proteggere e nutrire, mentre allo stesso tempo “racchiude” al suo interno e cela l’invisibile e il mistero. Quello della Grande Madre è un archetipo che possiede una quantità infinita di aspetti essendo allo stesso tempo Donna, Madre, Amante e Sorella. Con il passare dei secoli, ogni civiltà le attribuì nomi diversi, glorificandola come unica fonte di vita dell’intero Universo. Il Vecchio Testamento ce la presenta nella sua forma originaria, Eva/Serpente,  l’animale che sulla Terra è adagiato e compenetrato in essa.
La Grande Madre, divinità legata al lavoro della terra e alla ciclicità delle stagioni, sarà sostituita nel tempo da figure maschili che rappresentano il successivo mutamento della struttura socio-economica primitiva: dal matriarcato si passa alla società e alla famiglia patriarcale. Sia che si chiamasse Damona per i Galli, Danu per gli Irlandesi, Brigit per i Celti, Hathor per gli Egizi, Inanna presso i Sumeri, Ishtar presso i Babilonesi, Devamatri, principio astratto della creazione primordiale), Prithvi (nel pantheon indiano è la Dea della Terra, della Natura in tutte le sue forme nonché dea dell'abbondanza), Parvati (adorata nella tradizione Hindu come Dea della Fecondità), Rhea/ Cibele, Gea/ Gaia, Demetra-Cerere, Persefone o Core/ Proserpina, Branwen (Dea celtica “dai bianchi seni” che incarna la Madre Universale), Holle (dea germanica), Iside (Dea egizia consorte di Osiride), Maria, (la Madre di Gesù Cristo),  la Grande Madre rappresenta la fertilità poichè dispensa figli ed abbondanza. La donna ne è la rappresentazione umana e, grazie al legame privilegiato che detiene con la dea, da sempre custodisce i segreti della vita, della procreazione e della guarigione. Nel culto cristiano i suoi archetipi sono stati rimodellati sulla figura di una sola entità femminile, la Vergine Maria.
La Grande Madre ha sempre avuto una duplice o triplice rappresentazione: viene infatti identificata sia con la Luna Piena (amica, benedicente e generosa)  con la Luna Nuova (ostile e distruttiva) oppure con la Terra (i regni umani e terreni), e la Morte.
I simboli che si collegano alla Grande Madre sono caratterizzati dall’ambivalenza, da una duplice natura, positiva e negativa, quella di "madre amorosa" e di "madre terribile" principio di trasformazione e distruzione. Nei riti connessi alla Dea, infatti, viene venerata sia come simbolo della Natura positiva (da cui la fertilità, l'abbondanza dei raccolti e in generale la prosperità e il nutrimento) che del volto negativo della Natura (le tempeste, la carestia e in generale la morte, e la distruzione) non a caso molte antiche rappresentazioni della Dea Madre avevano il volto metà bianco e metà nero.
La Terra, con tutta la sua potenza creatrice e allo stesso tempo distruttiva è il femminile, l' origine, il principio da cui discende tutto. La società matriarcale riconosceva alla donna il diritto di congiungersi con gli uomini della sua tribù e di altre famiglie, non esistendo il potere dell' uomo, la matriarca rappresentava il capofamiglia, la prole era il suo frutto e non era necessaria la certezza della paternità. Il potere della donna durò molti secoli finchè, con l’avvento dell’agricoltura e l’abbandono della vita nomade il concetto di Dio iniziò a cambiare. Presso i babilonesi si intaccò il potere della Dea e si adorò il dio Marduk come creatore del mondo. Con l' avvento di Marduk, la donna venne relegata in casa, proprietà del maschio che voleva la certezza che la prole provenisse dal suo seme: comparve Lilith, ancora bellissima, apportatrice di tempeste, tentatrice, lussuriosa ma sterile. Da quel momento in poi la donna è stata spesso demonizzata perché perdesse il potere delle origini. Cominciarono a diffondersi credenze e superstizioni sulla tossicità del sangue femminile, considerato impuro. La Constitutio de purificatione a sanguine mestruo emanata da Costantino I ai tempi del Concilio di Nicea vietava alla donna l’ingresso in chiesa e l’accesso ai sacramenti nei giorni del ciclo. Le credenze popolari hanno fatto perdere di vista il significato reale del proprio ciclo alle donne stesse, anche in ambienti illuminati. Diverse generazioni di donne sono cresciute nella convinzione errata di essere più vulnerabili in quei giorni. La donna per le sue capacità magiche e le sue conoscenze mediche è divenuta una strega malefica da condannare al rogo.



Gustav Klimt: Le tre età della donna, 1905. Galleria Nazionale d'Arte Moderna, Roma.


G. Klimt rappresenta un tema ricorrente nella sua opera: la precarietà della vita e della bellezza. L’opera è un’allegoria del ciclo della vita attraverso i momenti della nascita, della fanciullezza, della maternità, della vecchiaia, della morte.
La figura della giovane donna in contrapposizione all’anziana rappresenta la maternità e appare immersa in un’atmosfera irreale e quasi sacra. L’abbraccio della giovane donna è delicato e avvolgente allo stesso tempo. Un particolare evidente nella donna anziana è invece il grembo deformato e ormai divenuto sterile.

La maternità è un continuum che corrisponde al ciclo della vita: una volta concluso non si esaurisce, ritorna. La donna è certezza del mondo, garante della vita e della continuità della specie. Grazie alla ciclicità la donna si sente sempre più connaturata con il fluire della vita, in sintonia con il pulsare dell’universo.


Il Figlio Sylvia Plath



CANTO DEL MATTINO
Come un grasso orologio d’oro l’amore ti mise in moto.
La levatrice schiaffeggiò le piante dei tuoi piedi, e il tuo grido pelato
prese il posto tra gli elementi.
Le nostre voci echeggiano, magnificando il tuo arrivo. Nuova statua.
In un museo percorso da correnti d’aria, la tua nudità
adombra la nostra sicurezza. Ti attorniamo vacui come mura.
Non sono più madre tua io
della nuvola che distilla uno specchio per riflettervi la sua propria lenta
cancellatura per mano del vento.
Tutta la notte il tuo fiato-di-falena
ondeggia tra le rosee lisce rose. Veglio per ascoltare:
un mare lontano muove nel mio orecchio.
Uno strillo, e dal letto incespico, pesante come una vacca e floreale
nella mia vestaglia vittoriana.
La tua bocca s’apre nitida come quella d’un gatto. Il riquadro della finestra
s’imbianca e ringoia le sue tetre stelle. E ora tu provi
un tuo trillo di note;
le chiare vocali sorgono come palloni d’aria

1 commento:

  1. E' il tema della maternità che ritorna,sempre associato a metafore, a oggetto correlativo, metafore laceranti anche di fastidio per la passività imposta alla donna da tale condizione, privata della connotazione amore-tenerezza. luogo comune della mitografia maschile. 'Non sono più madre io di una nuvola',dice Sylvia, e si alza con la sua vestaglia vittoriana come una vacca floreale. E sogna il mare, il liquido pre-natale dal quale ha lei bisogno di ri-nascere, come la primavera. Il trillo di note del bambino non ha una melodia ma forma palloni d'aria che si levano.Anche così, se la persona donna non si sente libera può vivere la maternità, come un'estranea intrappolata in un mondo non suo, che si vede dal di fuori, e vorrebbe ritornare al mare.Forse l'amore ,per chi non è stato amato ,non è un dono verso un essere che nasce e che ti incatena.
    Così anche la maternità va rivissuta, ricreata internamente, accolta come nuova vita e rinascita del sè. Non sempre è così. Bisogna uscire dagli schemi e rigenerare la voglia di amare.

IO (UNA) MADRE

Ricordo ancora
il torpore del risveglio
il riemergere al reale
con la mente vuota
incapace di pensare
voci confuse da lontano
attraversano il silenzio
di oblìo simile alla morte.

Dalla cortina di assenza
un ricordo inconsistente
diviene paura concreta.
È viva? È sana?
Provo a muovere le membra intorpidite
anestetizzate da staticità imposta
a lungo protratta.

Un dolore tagliente
mi annebbia la vista.
Mi rispondono
che sei viva sei sana
(Avrò parlato dunque?)
sollevata sprofondo
ancora nell’oblìo.

La prima volta che ti ho visto
mi sei apparsa
un angelo di Dio
il miracolo mio
di donna.
Avevi la pelle di luna
le linee di velluto
il mio stesso odore.

Eri il prodotto puro dell’amore.

Ora il miracolo è svegliarti
scoprendo i segni della crescita
gioire e piangere con te
che sei parte di me
(ancora lì dove sei stata concepita)
la mia miglior parte
il futuro roseo
di attese e di speranze.

Ti accompagnerò
finchè sarà concesso
non ripeterò gli errori
di mia madre
ne compirò di nuovi
quelli che solo le madri fanno
per eccessivo amore.                                                         

Deborah Mega
                                                      

Moltissimi artisti hanno rappresentato il tema della maternità nei loro dipinti. Le donne in particolare hanno scelto di rappresentare scene di vita domestica, dimostrando di saper cogliere  tutta la naturalezza e la spontaneità dei gesti e delle espressioni di quel rapporto speciale che lega madre e figlio.
Tamara De Łempicka, pseudonimo di Tamara Rosalia Gurwik-Górska (Varsavia 1898- Cuernavaca 1980), è stata una pittrice polacca appartenente alla corrente dell'Art Decò. Dopo essere vissuta in Svizzera e a San Pietroburgo giunse a Parigi. Qui affinò il suo stile personale, fortemente influenzato dall'Art Decò ma allo stesso tempo assai originale. Si trasferì in California dove in breve tempo divenne famosa come ritrattista. 





Tamara De Lempicka, “Maternità” 1928









Mary Stevenson Cassatt (Pittsburgh1844- Chateau de Beaufresne 1926) è stata una grande pittrice statunitense. In tempi in cui per le donne non era facile riuscire a realizzarsi, inseguì con successo il sogno di diventare un’artista. Si perfezionò in Europa, tra Roma, Siviglia e Parigi, e nel 1877 fu invitata da Edgar Degas ad esporre i suoi lavori insieme agli Impressionisti, nelle prime mostre da loro organizzate.
La Cassatt ha ritratto mamme che consolano, che abbracciano, che baciano, che sono impegnate in una routine quotidiana fatta di bagnetti d’altri tempi, poppate, capelli da spazzolare, panni da rammendare, gite in barca, passeggiate in giardino.





Mary Stevenson Cassatt, “Louise feeding her Child” 1899





La dimensione intima e familiare ritratta dalla Cassatt ricorda molto da vicino l’incipit del romanzo To The Lighthouse di Virginia Woolf, in cui è descritta una madre che cuce mentre la figlia, appoggiata sulle sue ginocchia, guarda lo spettatore.
La scena di maternità è rappresentata all’inizio del libro per enfatizzare la vita serena della famiglia Ramsey prima della morte della madre e si fissa nella mente del lettore come se si trattasse di un quadro tanto è forte la carica visiva evocata dalle parole.



Mary Stevenson Cassatt, “Little girl leaning her’s mother knee” 1901


“Sì, certo, se domani fa bel tempo” disse la signora Ramsay.
“Però dovrai essere in piedi con l’allodola” aggiunse. A suo figlio queste parole comunicarono una gioia straordinaria, come se fosse stabilito che la spedizione avrebbe avuto luogo senz’altro, e l’incanto cui aveva agognato, per anni e anni gli pareva, fosse, dopo il buio di una notte e la traversata di un  giorno, a portata di mano. Egli apparteneva, già all’età di sei anni, a quella grande categoria di persone che non riescono a tenere le emozioni separate le une dalle altre, ma lasciando che le prospettive future, con le loro gioie e dolori, annebbiano ciò che effettivamente è, perché, per tali persone fin dalla prima infanzia qualsiasi oscillazione della ruota delle sensazioni ha il potere di cristallizzare e trafiggere il momento dal quale dipendono la tristezza o la radiosità.

(Incipit tratto da To the lighthouse, Gita al faro di Virginia Woolf, 1^ ed. originale 1927, 1^ ed.italiana 1934)

Virginia Woolf perse la madre Julia Stephen all’età di tredici anni. Già nel saggio Reminiscences la scrittrice rievoca l’impatto doloroso che la morte della madre provocò su lei e sulla sua famiglia; in Gita al faro la figura  di sua madre è magistralmente e amorevolmente  ritratta al punto che la sorella Vanessa, dopo aver letto il romanzo, le scrive:
« A me sembra che tu abbia tracciato un ritratto della mamma che le somiglia più di quanto avrei mai creduto possibile. È quasi doloroso vedersela risuscitare davanti. Sei riuscita a far sentire la straordinaria bellezza del suo carattere... È stato come incontrarla di nuovo... Essere riuscita a vederla in questo modo a me sembra un'impresa creativa che ha del miracoloso... L'immagine che dai di lei sta in piedi da sola e non solo perché evoca ricordi. Mi sento eccitata e turbata e trascinata in un altro mondo come lo si è solo da una grande opera d'arte. »
Il soggetto è la tensione verso il faro, la luce rappresentata dalla madre, che, nel corso del romanzo diviene desiderio di identificazione nella figura materna al fine di ottenerne serenità e stabilità. Lo stesso bisogno di scrittura nasce nella Woolf come ricerca di appagamento e di “luce” nonché come creatività che sostituisce il desiderio di maternità.
Nel romanzo la Woolf, attraverso le vicende della famiglia Ramsay, rievoca le vacanze che con la propria famiglia soleva trascorrere in Cornovaglia. È il ritratto di una donna, sua madre, guida illuminante per tutti, la quale incarna un modello di maternità serena ed appagata nonché una descrizione felice della famiglia inglese di primo Novecento.
Il ritratto costruito dalla Woolf si avvale della caratterizzazione indiretta, viene cioè fornito attraverso i punti di vista degli altri personaggi, i pensieri e i sentimenti che la signora Ramsay suscita in loro.


MEDEA DAL TABÙ AD UN'ALTERNATIVA POSSIBILE

"Una donna condannata per l'omicidio di quattro bambini. Un pittore, un ritratto. Pochi ingredienti sufficienti per scatenare una polemica che ha diviso l'Inghilterra......Il dipinto ritrae il volto tormentato di una donna i cui lineamenti sono fissati e formati da centinaia di calchi di gesso di una mano infantile...Il quadro non ha titolo....forse...quel quadro non é altro che la metafora della maternità. Forse è l'eterna tragedia di Medea....."

Così Maria Rosa Cutrufelli quest'estate su di un quotidiano riferiva di una contesa che aveva visto una donna, l'infanticida, contrapporsi alla Royal Academy of Arts che quel quadro, ispirato al pittore dall'atto della donna, voleva esporre.
Perché rievocare l'episodio in questo contesto? Quale il legame, il nesso tra quanto accaduto allora e le questioni che qui, oggi, si dibattono?
Il nesso, credo, sta in quella "metafora della maternità", "l'eterna tragedia"... metafora, eterna tragedia che é ormai tempo di svelare, riconducendo dal mito all'esperienza della vita l'agire/il vivere la relazione madre/figlio-figlia ed il suo reciproco figlio-figlia/madre dentro la concretezza del quotidiano.
Quotidianità ed esperienza che non abbisogna della retorica del sacro ma semplicemente della laicità di uno sguardo in grado di riconoscere nel binomio madre-figlio/a non un'entità unica, segnata da un destino comune, ma due soggettività, sicuramente unite da quella che Galimberti definisce "relazione originaria", eppure tra loro differenti e come tali portatrici di bisogni, necessità, diritti non sempre coincidenti ma, anzi, talvolta tra loro in conflitto.
Conflitto la cui soluzione è da ricercare non nella gerarchizzazione di bisogni o desideri, né tantomeno nella loro negazione quanto piuttosto nella costruzione di una rete socioculturale che, mentre salvaguarda gli interessi dei singoli, metta in condizione la madre ed il bambino/la bambina di vivere il loro rapporto in modo costruttivo e soddisfacente dal momento che dentro un nuovo dire, non più metafora o tragedia, la relazione stessa riconquista senso e significati altri non più dipendenti dal sacrificio di nessuno.
In quest'ottica é allora possibile comprendere quelle esperienze di vita finora relegate nel campo della follia femminile, gesti ed azioni incomprensibili solo per una ragione "pura" che non ha mai sopportato il confronto con la concretezza del quotidiano ma che, invece, racchiudono nel loro accadere ragioni ed emozioni alle donne evidenti.
Ci si riferisce, é chiaro, a quegli episodi in cui la rottura del binomio avviene in modo violento ad opera di una delle due componenti (il figlicidio ed il matricidio), episodi che, é esperienza comune, la cultura dominante, sia essa giuridica o psichiatrica, tende, almeno "a caldo", ad ascrivere ad un'irrazionalità oscura ed incomprensibile da cui non farsi contaminare perché profondamente interferisce con i principi fondanti di una società patriarcale che nega senso e significato al mondo dei sentimenti e delle passioni che nel corpo si sostanzia e manifesta .
Rimandare quei gesti, infatti, alla "incapacità di intendere e di volere", esime dall'interrogarsi intorno a categorie e valori da sempre dati come assoluti, apriori "naturali" che definiscono i confini di una norma rigida che riduce la corporeità, di cui le donne sono rappresentazione e logos, ad oggetto di dominio e controllo.
Ed è per questo che per le donne, come dice Franca Ongaro Basaglia "l'ideale di salute mentale corrisponde all'accettazione di caratteri definiti da altri come precipuamente femminili, specifici della sua natura....la non adesione ai ruoli naturali é fonte di pesanti sensazioni morali e sociali... e, nonostante i cambiamenti di questi ultimi decenni, ancora le donne vivono come "colpa" sia il desiderio di realizzarsi come persone in sé e non solo in funzione di altri sia quel sentimento di incapacità/inadeguatezza a svolgere ruoli e funzioni"... che altri (in particolare psicologi e psichiatri) definiscono come "naturali" ma che invece costano tanta fatica e solitudine.
Colpa e sentimento di inadeguatezza che spesso sono origine di una sofferenza talmente forte da risultare incomprensibile soltanto perché la pratica terapeutica della psichiatria per le donne altro non è se non processo di normalizzazione/omologazione a valori e comportamenti da altri definiti e perciò stesso "incapacità totale di comprendere"
Noi, invece, come operatrici della salute mentale, proprio su questa "incapacità di comprendere" della scienza psichiatrica abbiamo voluto interrogarci, assumendola come segnale di un deficit che, come genere, dovevamo colmare riconoscendo nella donna con sofferenza psichica quelle parti di noi che, per legittimarci, avevamo dovuto negare.
E per far questo circa sette anni fa un gruppo di donne portatrici di sofferenza ed operatrici dei Servizi Salute Mentale iniziarono un percorso che ha portato alla costituzione di Centro Donna - Salute Mentale come luogo che risponde al bisogno di cura di un territorio e che offre iniziative di salute a tutte le donne della città'. Servizio psichiatrico forte e come tale portatore di regole istituzionali ma contemporaneamente pratica allusiva ad un'alterita' possibile fuori della logica dell'occultamento e/o dell'antagonismo.
Pratica fondata su quel bagaglio "congenito" (perché storicamente determinatosi) di ogni donna che è costituito, appunto, da un patrimonio di conoscenza e di sapere, riferito al soffrire ed al curare che si tramanda da donna a donna, in questa predisposizione è dato cogliere un'attenzione, una capacità di ascolto, mirata a ricomporre "la cura come preoccuparsi di, come tensione verso l'altro/altra, come incontro e rischio di due soggetti" (F. Rotelli, 1980).
Mutano segno, in questo quadro, anche le forme codificate di prestazione terapeutica, che, pur nella differenza dei ruoli, assumono un significato terapeutico soltanto nel quadro complessivo delle interazioni: sono sì di carattere individuale ma mai separate e autonomizzate nel gesto, nel linguaggio, e negli effetti.
Questo quadro complessivo di interazione delinea un rapporto terapeutico che si articola su più piani dal medicale al quotidiano, consentendo così uno scambio ed una contaminazione reciproca che determina comprensione e complicità: complicità come disponibilità della curante a comprendere l'altra da sé, a confrontare e verificare il proprio sapere, la propria scienza con l'esperienza esistenziale, la cultura, il vissuto della persona in cura; complicità come costruzione di una relazione forte di reciprocità e fiducia che deve mettere la persona in cura in condizione di sopportare lo scarto fra realtà e desiderio, l'inevitabile frustrazione che il confronto quotidiano produce su persone portatrici di sofferenza psichica.
Nulla a che vedere, quindi, con la connivenza e/o con il pregiudizio, con la difesa acritica del "proprio paziente" da parte del/della terapeuta secondo una logica di oggettivazione del medesimo come se non fosse persona portatrice di diritti ma anche di doveri.
Questa logica di responsabilizzazione riferita non solo alla persona in cura ma anche alla terapeuta, intesa sia come operatrice singola che come équipe del servizio nel suo complesso, trova una significativa concretizzazione all'interno del delicato ambito di confronto tra psichiatria e giustizia.
In particolare, nella presa in carico da parte di Centro Donna di donne che, per motivi, in parte o in toto, ascrivibili alla loro sofferenza psichica, sono costrette a misurarsi con la giustizia.
Con queste donne, infatti, il lavoro ha il duplice scopo di elaborazione del gesto "criminale" come tentativo di rottura di un'esperienza di sofferenza insostenibile a livello individuale e di lettura dello stesso sul terreno di una "normalità" da trasformare, certamente, ma non da negare.
Ed é per questo che si cerca in tutti i modi (anche se non sempre si riesce) di non sottrarre la donna al procedimento penale, ma in questo la si sostiene opponendo agli apparati giudiziari la concretezza dell'esperienza individuale, il suo percorso di vita nel quale è possibile ricongiungere nessi e significati di errori e gesti che niente e nessuno può negare perché "insensati".
Si rompe, in questo modo, il legame perverso tra psichiatria e giustizia che ha fondato i manicomi criminali, si ridisegnano i due piani di intervento, il terapeutico ed il sanzionatorio, restituendo così alla donna la sua esperienza concreta di vita ed alla comunità la possibilità di comprendere il significato ed il senso di gesti che, non più tabù, segnalano la necessità di rivisitare il concetto dominante di una "normalità" sostanzialmente estranea al mondo degli affetti e dei sentimenti.
In questo quadro si inscrivono le esperienze di "arresti domiciliari" presso Centro Donna-Salute Mentale, che in questi ultimi due anni hanno coinvolto due donne, esperienze ancora in fieri e, quindi, trasmissibili soltanto attraverso l'esplicitazione di alcuni passaggi fondamentali del percorso agito dal servizio, della rete costruita nodo dopo nodo dalle operatrici al fine di esplicitare e rendere, così, più comprensibile quanto finora detto.
Entrambi gli episodi, pur profondamente diversi per storia, svolgimento ed esperienze esistenziali delle persone coinvolte, hanno avuto come oggetto la relazione madre/figlio-a, nel senso che hanno portato in superficie una condizione di grave sofferenza della relazione in sé al di là delle differenze soggettive, che pur sono sostanziali e per certi versi addirittura contrapposte.
Sofferenza la cui origine è stato possibile ampiamente leggere e comprendere all'interno di quella colpa/incapacità/inadeguatezza di cui già si é detto senza dover ricorrere a categorie patologiche e nosografiche.
La vita di entrambe le donne è sin dall'inizio segnata da una pesante miseria non solo economica ma anche culturale ed affettiva, caratterizzata da modelli di rapporto violenti e di negazione dei soggetti più deboli.
Costruire una famiglia dove per tutti sia possibile vivere bene, nella quale i figli possano crescere godendo di comodità e protezione è un obiettivo che entrambe si danno quasi come imperativo categorico e morale per riscattare un'esistenza altrimenti vuota di senso e positività.
Certamente diversa è la consapevolezza, diverso l'agire, le modalità poste in atto per raggiungere questo obiettivo, ma il tema del "matrimonio, dell'essere una buona madre o viceversa una buona figlia" è tema continuamente ricorrente e rappresenta il nodo centrale intorno al quale come operatrici abbiamo costruito la rete di sostegno in modo da rendere possibile un'elaborazione di esso in termini di riconoscimento e rafforzamento soggettivo.
Concretamente questo ha significato sia lo stabilire un rapporto diretto e tempestivo sul versante giudiziario che la costruzione di una rete di relazioni terapeutiche forti.
In termini pratici ciò si è tradotto in una presa in carico delle questioni attinenti l'iter giudiziario nella direzione di un rapporto con il magistrato che sin dalle prime fasi, all'interno di una differenza di ruoli, ha visto lo svolgersi di un percorso che oltre ad evitare l'invio in O.P.G. ha permesso alla donna in questione di usufruire delle cure necessarie senza che il suo stato di sofferenza invalidasse il suo dire o le negasse il diritto a difendersi.
Dopo un primo accoglimento presso il S.P.D.C. durante il quale, comunque, le operatrici di Centro Donna hanno mantenuto un rapporto quotidiano, gli arresti domiciliari, in virtù di un lavoro congiunto tra difesa, servizio di salute mentale e magistrati (gip e p.m.), sono stati effettuati presso il centro di salute mentale permettendo così un programma terapeutico articolato su più piani e del cui svolgersi si è sempre data puntuale informazione alla magistratura. Informazione che é importante non solo perché prevista dalla legge, ma soprattutto perché garantisce alla donna il legame con la realtà ed alla giustizia l'acquisizione di significativi elementi di conoscenza.
Riteniamo importante segnalare il dato che anche se le operatrici direttamente implicate, per ogni situazione, sono 4/5 le discussioni intorno alle modalità ed al senso dell'agire hanno sempre coinvolto l'équipe nel suo complesso allargandosi, in momenti particolari, a tutte le donne che frequentano il servizio.
Confronto e discussione necessaria per sciogliere le angosce ed i fantasmi che simili episodi evocano in ciascuna (ogni donna è/stata figlia è/può essere madre), utile per ricondurre sul terreno della normalità le relazioni fuori dalla compassione e/o dal timore, per riconoscere all'altra una sua soggettività complessa e contraddittoria.
La fine degli arresti domiciliari rompe le analogie perché diverso è il passaggio successivo che questi determinano.
In una situazione, infatti, conclusasi la fase di trattamento, anche all'interno di differenti interpretazioni sul ruolo e le funzioni di un Centro di Salute Mentale, differenti interpretazioni che, proprio in virtù del rapporto costruito tra le operatrici del centro e gli operatori della giustizia, hanno trovato un corretto livello di mediazione gli arresti si sono conclusi con il trasferimento presso la casa circondariale di Udine.
Qui la donna riceve, con frequenza bisettimanale, la visita di due operatrici del servizio il che le consente di usufruire del sostegno necessario al mantenimento del suo equilibrio psichico nelle condizioni date e di elaborare in termini non fittizi, come di necessità accade in una struttura sanitaria, quanto é accaduto.
Per l'altra, invece, gli arresti domiciliari sono stati revocati perché l'iter giudiziario si é concluso in fase istruttoria mentre il rapporto con il servizio continua perché, evidentemente, le questioni apertesi nella sua vita sono tutte ancora da risolvere.
In particolare ci pare significativo sottolineare come la soluzione del procedimento nei termini di un proscioglimento per "totale vizio di mente" se da un lato é stata da lei accolta con gioia perché di fatto da un giorno all'altro era libera, ha nello stesso tempo lasciato una sorta di "buco nero" nella sua vita. Il modo stesso in cui lo ha appreso, di fatto informale (due poliziotti le hanno una sera consegnato una carta che ciò le comunicava), quasi alla chetichella soprattutto se paragonato al clamore iniziale, questo viceversa eccessivo, segnala come quelle tre parole "vizio di mente totale" siano sufficienti, nel bene e nel male, a svuotare di senso e significato qualunque gesto anche il più estremo.
Svuotamento che mette tutto a tacere: le sue responsabilità, le sue ragioni, i suoi errori, riguardano solo lei, tutt'al più la sua terapia, non la comunità che, pure, al momento del fatto è stata coinvolta , si é in qualche modo schierata a favore o contro in modo del tutto emotivo.
Ed allora quelle tre parole ci riguardano tutti, lasciano il giudizio in sospeso, rafforzano il tabù, impediscono a ciascuno/ciascuna di verificare il proprio pensiero, di elaborare le proprie reazioni, tolgono concretezza al gesto che in assenza di una sua rappresentazione pubblica (cosa altro è il processo se non la drammatizzazione della contrapposizione tra norma e trasgressione?) ricade sulla donna come un'incubo, la follia di un momento che è meglio cancellare, come si può e si sa costi quel che costi.



RACCONTARE
Mentre si narra un fatto è bene soffermarsi a descrivere i personaggi, per conoscerli, avvicinarci ad essi, sentirli vivi e indimenticabili.
Per tracciare un ritratto efficace il lavoro va diviso in due fasi.
A.     Osservazione del soggetto scelto e organizzazione del progetto della descrizione.
B.      Stesura.
A.
Scegli una persona interessante, osservala tenendo presente alcuni punti fondamentali:
§        Aspetto esteriore (corporatura, statura, andatura, carnagione, viso, particolari del viso, modo di vestire, voce…)
§        Aspetto sociale (nome, età, famiglia, professione, condizioni economiche, ambiente di vita…)
§        Abitudini, comportamento (atteggiamenti, modo di parlare, frasi tipiche, intercalare…)
§        Aspetto interiore (carattere, difetti, qualità, idee, sentimenti, intelligenza…)
Leggi il testo integrale del racconto di Virginia Woolf.


Scheda di lettura

I personaggi
Descrivi i personaggi che compaiono nel racconto, mettendo in evidenza personalità e carattere.

Lily Briscoe
Mrs. Ramsey
Mr. Ramsey
Mr. Bankes
Carlo

Paolo
Augusto
figli

Parole
Indica qui le parole che ti erano sconosciute e che hai cercato sul vocabolario poi copia la breve definizione che ti è stata data.













Hai colto leggendo alcune specificità che qualificano il tipo di scrittura come propriamente scritta da una donna?

Ne ritrovi in questo testo?

Se sì, quali sono?

Struttura del racconto

Punto di vista

Ambiente e personaggi

Linguaggio

Modo di raccontare

Parole







Scheda di ricerca

Virginia Woolf
Cerca e riassumi qui i dati essenziali e significativi della vita dell’autrice e fornisci un breve commento su ciascuna delle opere che conosci dell’autrice.










I temi
Quali temi sono presenti in questo racconto?







Opera
tema
Breve tuo commento





































B.
RACCONTARSI
§        Descrivi un soggetto da te scelto.
§        Scrivi l’introduzione presentandolo in breve.
§        Descrivilo con ricchezza di particolari: fallo vivere, impegnalo in azioni, in circostanze precise, racconta episodi significativi e commenta con tue espressioni.
§        Concludi con riflessioni personali.
§        Usa un linguaggio ricco di aggettivi, di paragoni, espressioni del linguaggio figurato per coinvolgere maggiormente il lettore.
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Registra il tuo ritratto (solo voce o anche filmandoti mentre leggi),
e poi fallo ascoltare a chi vuoi (amici, parenti).
Quali commenti avete fatto tu e le persone coinvolte?


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Potrebbe il tuo ritratto essere individuato come opera di una scrittrice. Se sì, perché?


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