domenica 19 agosto 2012

La parola ritrovata con Carole Martinez : "Du domaine des murmures" Trad.e analisi di M.Allo

 “La parola ritrovata”, si propone di riflettere sul ruolo della donna nella nostra società attraverso testimonianze storiche ed artistiche e valorizzare la diversità”.

L'esperienza psicologica profonda ha insegnato che cambiamenti della coscienza che non vanno di pari passo con quelli delle parti inconsce della personalità sono assai limitati.Attraverso un orientamento esclusivamente intellettuale si possono anche raggiungere cambiamenti di notevole importanza nella coscienza, ma essi rimangono per lo più circoscritti al limitato ambito di quest'ultima.Al contrario, cambiamenti parziali dell'inconscio personale , dei complessi, influiscono sempre anche sulla coscienza e quelli che sono determinati dagli archetipi dell'inconscio collettivo abbracciano quasi sempre l'intera personalità.
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Carole Martinez autrice di Du domaine des murmures (Gallimard)

"Dal campo mormora," Carole  Martinez 

Note biografiche

Figlia  di  un'attrice spagnola , Carole Martinez ha studiato all'Università Paris VII, dove ha frequentato i corsi di letteratura e filosofia Depussé Marie , Benny Lévy e Jean Delabroy .Ha insegnato Francese per sette anni in una scuola di Sarcelles e poi in Issy-les-Moulineaux , nell'Ile de France, Parigi. Ha scritto per diverse riviste e ha sviluppato una tesi di laurea su Le sang dans l'oeuvre de Faulkner ("Blood in opera di Faulkner").
Finalista al Premio Gongourt, Carole Martinez mostra il suo talento di narratrice nel "Du demaine des Murmures".
La  sua eroina Esclarmonde , rifiutandosi di pronunciare "si" il giorno del suo matrimonio, scandalizza gli invitati presenti alla cerimonia.
 Per sfuggire ad un' unione con Lotario, Esclarmonde decide di seppellire i suoi 15 anni vissuti in una cappella e dedicare la sua vita a Dio, un confinamento dunque  che rimette in giogo la sua condizione di donna del XII secolo e, paradossalmente, quello che lei chiama "morte", in fondo poi un ritorno alla vita. Diviene  indovina d' anime e riceve le confidenze dei pellegrini che vengono da lei a lasciare messaggi attraverso il "Network murata": "Non ho mai ricevuto così tanto, così tanto."
La  sua cella  è un crocevia che collega il suo destino con quello del mondo, trasmutando la sua "reclusoir" in salotto, cassa di risonanza reale.L' immobilità dà accesso a un viaggio interiore di visioni che sono anche le  sue prigioni e che si fondono con il suo corpo - un "gap" tra il mondo dei vivi e dei morti. Profetessa abitata da ciò che vede, da coloro che non ci sono più,  reclusa  dà alla luce un figlio.: "Non ho mentito, ero contenta del silenzio ,una verità che nessuno vuole sentire, e il mio silenzio mi ha dato uno spazio vuoto di vendere un vuoto, ognuno dei quali è stato sequestrato con gioia. Un inno alla letteratura, il suo dissenso. Un "conjointure" miracolo caro a Chretien de Troyes: ". Papavero come" fusione di tradizioni diverse, che si svolge nello spirito.Parola ritrovata dunque...

SINOSSI

Quando il giorno delle nozze rifiuta di dire sì, Esclarmonde rompe con le consuetudini medievali e mette alla prova nel contesto fiabesco il suo voto di offrirsi a Dio. Tuttavia, la volontà di chiudersi per sempre in una cella, di murarsi viva, la riapre paradossalmente al mondo, schiudendo lo spirituale verso la magia e l’avventura del raccontare. L’immaginazione corre lontano, ponendosi all’ascolto del meraviglioso con lo stupore della semplicità ed il timore dell’incongruo. Senza trascurare il senso del tempo, la scelta di dare voce ad un’ombra funge da contrappunto per dare consistenza alla vita, scavando nelle fessure non solo dei limiti angusti del chiuso. In questi squarci si rivivono dall’esterno le esperienze vissute. Così Esclarmonde non riconfigura solo la propria fiaba, ma tende l’orecchio alla forza narrativa di un mondo perduto. Con la distanza e l’emozione della contemplazione della natura e con l’intensità del fruscio del tempo andato, prova a rianimarne l’incanto nella quotidianità contemporanea. 
 
Con questo libro Carole Martinez avrebbe dovuto trasformare il suo famoso Cuore cucito, acclamato da molti lettori, vincitore di numerosi premi, il primo romanzo che ha segnato per molti la nascita di una scrittrire di grande talento ....
Il fatto è che non ho letto Il cuore cucito ... Così ho intrapreso questo romanzo senza mordere il mio sangue per paura di essere delusa, ma con una grande curiosità: io amerei questa penna? Questa nuova voce di donna lodata da tutti?
"Io sono l'ombra che parla.
Sono io quella che ha volontariamente si è recintata
per tentare di esistere.
Io sono la Vergine dei Sussurri.
A voi che potete sentire, voglio parlare per primo,
dire la mia età, i miei sogni, le speranze di murata viva. "
Siamo nel XII secolo. Fin dalle prime pagine, la voce di Esclarmonde,  si alza e non ci fa mai ripartire. Ha scelto di dire "no", agli uomini, a suo padre, alle tradizioni e a un matrimonio forzato indesiderato. Questo "no", lei sceglie di gridarlo all'interno della chiesa dove si celebra il matrimonio con Lotario di Montfaucon ... A rischio di entrare in conflitto  con il padre, commette ,Esclarmonde, l' irreparabile, preferendo offrire a Cristo tutte le sue preghiere. "  io sia il sacrificio, la colomba, la carne offerto a Dio ".

Fin dalle prime righe, sono stato sedotta dalle parole di Carole Martinez, la penna è bella, molto poetica, viva, vibrante ... Questa voce di donna  particolare, che sale a raccontarci la sua storia  ci porta ben oltre quello che possiamo immaginare ...
 Perché mi ha appassionato tanto la sorte di Esclarmonde da spingermi a tradurre questo romanzo piuttosto che rilassarmi? Eppure sono in vacanza qui a Parigi . Mah, ho preso la decisione di trasferirmi a Plaisir ,a pochi chilometri da Parigi ,è un luogo più tranquillo e rivivere le atmosfere del romanzo è un'emozione indescrivibile!
 Dai, proviamo a leggerne qualche brano  , vedrete che ci si rimane incollati e poi, ovviamente, la storia è intrigante e commovente......
Carne la parola ritrovata, non importa, se scritta o effigiata .

Prologue

On gagne le château des Murmures par le nord.
Il faut connaître le pays pour s'engager dans le chemin qui perce la forêt épaisse depuis le pré de la Dame Verte. Cette plaie entre les arbres, des générations d'hommes l'ont entretenue comme feu, coupant les branches à mesure qu'elles repoussaient, luttant sans cesse pour empêcher que la masse des bois ne se refermât.
La voie en proie à l'effacement, où nous marchons longtemps, résonne de cris d'oiseaux. Nous peinons un peu et poussons sur nos orteils pour décoller nos pieds du sol boueux, de la terre qui monte en pente douce. Des ronces nous agrippent aux mollets, nous griffent au visage, de petites araignées brunes courent sur la mousse entre les feuilles. Nous avançons sous une voûte végétale que seuls de rares rayons parviennent à traverser. Quelques glaives lumineux zèbrent d'or les sous-bois comme dans les enluminures d'un vieux livre de contes.
Enfin, la feuillée s'ouvre et nous débouchons sur une grande clairière, jadis ceinte d'une gigantesque palissade de troncs morts puis, deux siècles plus tard, d'un mur de moellons si haut qu'on apercevait à peine le sommet de la grosse tour par-derrière. Aujourd'hui, il ne subsiste de ces remparts que quelques ruines des vieilles courtines qui ceinturaient sur trois côtés l'éblouissante trouée où se dresse le château des Murmures.
Vers le sud, point n'était besoin de mur de bois ni de pierre : la tour seigneuriale déploie ses ailes dépareillées au sommet d'une falaise abrupte au pied de laquelle coule la Loue. La tranquille rivière continue de lécher l'escarpement rocheux, s'appliquant à dessiner depuis toujours les mêmes boucles vertes sur la terre.
Bravant le vide, les Murmures dominent un horizon noir de forêts.
Le château s'est extrait du sol par poussées successives, s'élevant ou plutôt se répandant davantage au fil du temps. Chacun de ses maîtres y a inscrit sa marque, ajoutant qui son pan de mur, qui sa volée d'escaliers, qui sa tourelle, sans jamais se soucier de l'unité de l'ensemble.
Nous passons l'énorme huis de chêne et de fer, aujourd'hui disparu, et foulons l'herbe haute du parc en friche qui s'étend devant la façade nord du château.
Une brise légère nous caresse le visage, elle joue sur nos cheveux, nous fait plisser les yeux, elle nous chatouille dans le creux de l'oreille. La rumeur éolienne incline les herbes folles. Comme au passage d'une traîne. Ça susurre quelque chose, une peine lointaine, ça s'effiloche en l'air.
Nous avançons à contre-vent dans ce long chuchotement qui semble s'échapper des pierres.
Et tout ce chemin que nous venons de parcourir, cette forêt et ces bois profonds, ce parfum d'humus et cette rivière aux boucles vertes que nous savons en contrebas, tout cela se dérobe et paraît irréel. La forteresse entière vacille sous nos yeux. Car ce château n'est pas seulement de pierres blanches entassées sagement les unes sur les autres, ni même de mots écrits quelque part en un livre, ou de feuilles volantes disséminées de-ci de-là comme graines, ce château n'est pas de paroles déclamées sur le théâtre par un artiste qui userait de sa belle voix posée et de son corps entier comme d'un instrument d'ivoire.
Non, ce lieu est tissé de murmures, de filets de voix entrelacées et si vieilles qu'il faut tendre l'oreille pour les percevoir. De mots jamais inscrits, mais noués les uns aux autres et qui s'étirent en un chuintement doux.
Un menu souffle se lève sur le blanc de la page, se faufile entre les pierres, nous remue l'âme, et c'est dans son haleine que s'esquisse l'ombre vibrante d'un château semblable à ceux qu'on se bâtissait enfant. Et ce sanctuaire spectral dévore le monument majestueux qui se tenait historique et solide sous nos yeux, il y a quelques secondes à peine. Les murmures dessinent des ombres fugitives sur sa façade austère et nous attendons le coeur battant, nous attendons d'y voir plus clair.
La tour seigneuriale se brouille d'une foule de chuchotis, l'écran minéral se fissure, la page s'obscurcit, vertigineuse, s'ouvre sur un au-delà grouillant, et nous acceptons de tomber dans le gouffre pour y puiser les voix liquides des femmes oubliées qui suintent autour de nous.


Premières phrases : "On gagne le château des Murmures par le Nord. Il faut connaître le pays pour s'engager dans le chemin qui perce la forêt épaisse depuis le pré de la Dame Verte. Cette plaie entre les arbres, des générations d'hommes l'ont entretenue comme feu, coupant les branches à mesure qu'elles repoussaient, luttant sans cesse pour empêcher que la masse des bois ne se refermât."
 
Au hasard des pages : "Le monde en mon temps était poreux, pénétrable au merveilleux. Vous avez coupé les voies, réduit les fables à rien, niant ce qui vous échappait, oubliant la force des vieux récits. Vous avez étouffé la magie, le spirituel et la contemplation dans le vacarme de vos villes, et rares sont ceux qui, prenant le temps de tendre l'oreille, peuvent encore entendre le murmure des temps anciens ou le bruit du vent dans les branches. Mais n'imaginez pas que ce massacre des contes a chassé les peurs ! Non, vous tremblez toujours sans même savoir pourquoi." (p. 184)

Extrait 1

Je suis l'ombre qui cause.
Je suis celle qui s'est volontairement clôturée pour tenter d'exister.
Je suis la vierge des Murmures.
À toi qui peux entendre, je veux parler la première, dire mon siècle, dire mes rêves, dire l'espoir des emmurées.
En cet an 1187, Esclarmonde, Damoiselle des Murmures, prend le party de vivre en recluse à Hautepierre, enfermée jusqu'à sa mort dans la petite cellule scellée aménagée pour elle par son père contre les murs de la Chapelle qu'il a bâtie sur ses terres en l'honneur de sainte Agnès, morte en martyre à treize ans de n'avoir pas accepté d'autre époux que le Christ.
J'ai tenté d'acquérir la force spirituelle, j'ai rêvé de ne plus être qu'une prière et d'observer mon temps à travers un judas, ouverture grillée par où l'on m'a passé ma pitance durant des années. Cette bouche de pierre est devenue la mienne, mon unique orifice. C'est grâce à elle que j'ai pu parler enfin, murmurer à l'oreille des hommes et les pousser à faire ce que jamais mes lèvres n'auraient pu obtenir, même dans le plus doux des baisers.
Ma bouche de pierre m'a offert la puissance de la sainte. J'ai soufflé ma volonté depuis la fenestrelle et mon souffle a parcouru le monde jusqu'aux portes de Jérusalem. Mes yeux, dans la tombe entrouverte, ont suivi les croisés en route vers Saint-Jean-d'Acre, jadis nommée Ptolémaïs.
Mais ma voix a déplu, on me l'a arrachée. Et les phrases avalées, les mots mort-nés m'étouffent. La foule des peines souterraines me tourmente. Ce qui n'a pas été dit m'enfle l'âme, flot coagulé, furoncles de silence à percer d'où s'écoulera le fleuve de pus qui me retient entre ces pierres, ce long ruban d'eau noire charriant carcasses d'émotions, cris noyés aux ventres gonflés de nuit, mots d'amour avortés. Saignées de paroles pétrifiées dans leurs gangues.
Entre dans l'eau sombre, coule-toi dans mes contes, laisse mon verbe t'entraîner par des sentes et des goulets qu'aucun vivant n'a encore empruntés.
Je veux dire à m'en couper le souffle.
Écoute !

Traduzione

Io sono l'ombra che parla.
Sono quella che volontariamente si è recintata per esistere.
Io sono la vergine dei sussurri.
A te che puoi aascoltare voglio parlare per prima  del mio secolo, dei miei sogni e delle speranze delle donne murate.
Ho fatto di tutto per possedere la forza spirituale con la preghiera e di osservare il mio tempo attraverso la fessura di una grata e questa  bocca di pietra è ora la mia salvezza.
Adesso posso finalmente parlare,sussurrare all'orecchio di tutti e ottenere quello che mai le mie labbra avrebbero potuto ottenere coi baci appassionati...
La mia bocca di pietra mi ha fatto ritrovare la dignità. fino alla porte di Gerusalemme.
I miei occhi ,nella tomba socchiusa ,hanno seguito gli incroci della via di Giovanna D'Arco,ma la mia voce è
stata deplorata e strappata.
Le mie frasi inghiottite,i miei movimenti abortiti misoffocano e le innumerevoli pene sotterranee mi tormentano.Quello che non è stato ancora detto mi gonfia l'anima coagulata nei pori di silenzio appollaiato là dove scorre il fiume del pus che mi trattiene dentro il freddo di queste pietre, luogo dove solo un nastro di acqua trasporta carcasse di emozioni,gridi affogati nel ventre gonfio di notte,aborti di amore.
Coglimi nel racconto di me  ,lascia che la mia parola ti porti dentro i sensi delle strettoie mai valicate dagli esseri umani.
Io voglio parlare a te che mi mozzi il fiato.
Ascolta.

Extrait 2

Je suis Esclarmonde, la sacrifiée, la colombe, la chair offerte à Dieu, sa part.
J'étais belle, tu n'imagines pas, aussi belle qu'une fille peut l'être à quinze ans, si belle et si fine que mon père, ne se lassant pas de me contempler, ne parvenait pas à se décider à me céder à un autre. J'avais hérité de ma mère une lumière sur la peau qui n'était pas commune. Derrière mon visage d'albâtre et mes yeux trop clairs, une flamme semblait vaciller, insaisissable.
Mais les seigneurs voisins guettaient leur proie.
J'étais l'unique fille et j'aurais belle dot.
Parmi les vigoureux fils que Dieu avait offerts à mon père, parmi ses compagnons d'armes et leurs jeunes écuyers, j'étais oiseau et je chantais à toute heure, je chantais dans le fracas des sabots et des armes ce que Pudeur m'interdisait de dire. Je résonnais comme une cloche de verre au centre du jardin clos où l'on me tenait aux beaux jours, cousue sur cette tapisserie " mille-fleurs " au milieu des renoncules et des glaïeuls sauvages arrachés aux prairies du pays, et ma voix montait dans leurs parfums, ma voix montait vers Dieu, légère et claire, ma voix montait telle la fumée d'Abel.

Traduzione
Io sono Esclarmonde, la sacrificata, la colomba,la carne offerta a Dio,una sua porzione.
Ero bella, tu non immagini, cosi bella come una ragazza puo' essere a quindici anni, cosi bella e fine che mio padre non poteva fermarsi di contemplarmi, nè permetteva che io mi cedessi a un altro.
Avevo ereditato da mia madre una luce sulla pelle che era comune. Sulmio viso di alabastro e i miei occhi molto chiari, una fiamma sembrava vacillare, insanziabile.Ma i signori  la loro preda.
Ero l'unica figlia e avevo una bella dote.Tra i vigorosi figli che Dio aveva donato a mio padre, tra i compagni di armi e i loro giovani cavalieri, io ero un uccello e cantavo a tutte le ore, cantavo nel fracasso di zoccoli e di armi e questo non era consentito normalmente per via del Pudore.
Io risuonavo come una campana di vetro al centro di un giardino chiuso dove si tiene nei giorni felici come su una "mille fiori" in mezzo a migliaia di gladioliselvaggi strappatiai prati del luogo e la mia voce saliva nei loro profumi, la mia voce saliva verso Dio, leggera e chiara, saliva verso Abele.
Tutti parlavano di questa fanciulla, di questo dolce angelo


Pag.200-201

Nous passons l'énorme huis de chêne et de fer, aujourd'hui disparu, et foulons l'herbe haute du parc en friche qui s'étend devant la façade nord du château........................


 Traduzione

Noi valichiamo l'enorme porta di quercia e di ferro oggi scomparsa e scaviamo l'erba alta del parco abbandonato che si estende davanti alla  facciata nord del castello.Il vento spazza le onde sulla grossa torre e sulle ali. Un sogno che increspa la fronte di pietra del castello si dissipa come bruma.
Un uomo visse qui un tempo,ma adesso non è più qui,lavora a Parigi.
Si dice che ha le mani bucate.La gente del paese richiama il cammino che abbiamo seguito per salire il sentiero della Fata.
A noi sembre che un cavallo galoppi non lontano, si sente il rumore degli zoccoli che si abbattanno sulle pietre.
.Alla nostra destra ,alcune steli sono sparse in un disordine inquietante ma davanti a un antichissima cappella .Apriamo la porta della bastigliae scivoliamo nel suo ventre.
 Le vetrate sono infrante e i venti attraversano l'edificio come il soffio in un flauto.Su uno dei muri decifriamo questa iscrizione quasi cancellata:
"Nell'anno1187 Esclarmonde ,si rassegna a vivere reclusa a Hautiepierre,rinchiusa fino alla sua morte nella piccola prigione costruita da suo padreper lei accanto ai muri della cappella che ha costruito nelle sue terre in onore di S.Agnese, morta martire a 13 anni per aver accettato di essere spose se non di Cristo.Una campana suona nella vallata della Loue e noi speriamo che il suo ultimo  tintinnio possa misurare per quanto tempo misurerà."




Scheda di lettura

I personaggi
Protagonista :Esclarmonde

“guaritrice, maga e quasi strega” che restitusce con i suoi vestiti l’incantesimo fragile della bellezza, in un’Andalusia violenta e persecutrice in un racconto di misteri che legano indissolubilmente l’universo mistico e spirituale a quello incarnato.
Ritratto psicologico  magistrale della reclusione volontaria di una donna del dodicesimo secolo. 
Donna volitiva   che esige rispetto per la sua scelta   , ma  non sarà la solitudine ad attenderla, bensì una specie di strano limbo che  influenzerà direttamente il feudo circostante e la stessa Terra Santa.
 L’immaginazione corre lontano, ponendosi all’ascolto del meraviglioso con lo stupore della semplicità ed il timore dell’incongruo. Senza trascurare il senso del tempo, la scelta di dare voce ad un’ombra funge da contrappunto per dare consistenza alla vita, scavando nelle fessure non solo dei limiti angusti del chiuso. In questi squarci si rivivono dall’esterno le esperienze vissute. Così Esclarmonde non riconfigura solo la propria fiaba, ma tende l’orecchio alla forza narrativa di un mondo perduto. Con la distanza e l’emozione della contemplazione della natura e con l’intensità del fruscio del tempo andato, prova a rianimarne l’incanto nella quotidianità contemporanea.

p. 174 […] les détails en sa bouche se modifiaient sans cesse et ses histoires n’étaient pas mots cloués sur une page, mais baisers perlés par ses lèvres et lancés en l’air, vifs comme des petits oiseaux […]




Il y a plein de choses qui sont abordées. Il y a le don à Dieu, il y a ce côté mystique, mais il y a aussi la condition des femmes au Moyen-Age, il y a l'amour courtois. On parle aussi des difficultés qu'on les Croisés quand ils sont allés en Terre Sainte, il y a tout un passage là-dessus. La violence de l'époque, parce que ce n'était pas une époque très facile. Il y a plein de choses qui sont évoquées dans ce livre et qui sont très intéressantes.

L'écriture est épatante, un style très agréable à lire, très grand public, pourtant le sujet est quand même pas facile, mais c'est super agréable à lire. On est vraiment bien dedans. On passe un très très bon moment.





La sventura della parola , la crisi di identità che essa manifesta in chi la sperimenta è ciò che accade allorchè ci si rifiuta e certamente per orgoglio, perchè esso deriva dai sognidi sovranità della persona di lasciarsi invadere e trasformare da un'identità superiore :quella che unisce a se stessa, nell'immediato , IL tutto dell'universo come tale; quella che fa di noi una delle sue parti, semplicemente, ma ci ricolma in questo modo di una evidenza, di una musica.

CAMILLE CLAUDEL
VITA DI UNA SCULTRICE

   

Camille_claudel_1
film regia di Bruno Nuytten:
"Mi piace il film, Adjani [...] è bella, commovente, molto vicino alla realtà, credo. Adjani è stato completamente investito nel ruolo, ha capito l'anima di Camille Claudel [...]



Così, riassumendo l'amara vicenda della sua vita,  la ricordò suo fratello Paul:
Mia sorella Camille aveva una bellezza straordinaria, ed inoltre un'energia, un'immaginazione, una volontà del tutto eccezionali.
Genio, passione,solitudine, miseria e follia nella vita della scultrice francese  Camille Claudel, (allieva ed amante del grande Auguste Rodin, uno dei maggiori artisti della sua epoca) che diventa scultrice per colui che  tutto le aveva insegnato e la cui lezione così bene aveva appreso (Le ho mostrato l’oro, ma l’oro che trova è tutto suo, Rodin).

Camille Claudel era nata l’8 dicembre 1864, a Villeneuve-sur-Fère, un piccolo villaggio nella regione della Champagne. Il padre, Louis Prosper, era il Direttore dell’Ufficio delle Imposte; la madre, Louise Cerveaux, una donna infelice, di rigidi principi morali e molto legata alle convenzioni, incapace di manifestazioni di affettività. In particolare non accettò mai Camille, che fin da bambina manifestò aspirazioni ed attitudini inconcepibili per sua madre.


Jean -Michel Malpois, un letterato francese che ha scritto un bel saggio sulla natura dell'dentità lirica, dice cheil soggetto lirico non si riconosce come soggetto pensante nell'unità stabile del “cogito”, ma si diffrange e si rivela avventurosamente in seno a un dedalo di figure retoriche che ne trasformano e ne moltiplicano i tratti. Il soggetto lirico si cerca, si perde,e si ritrova in un gioco costante di specchi e di illusioni.Esso corteggia in sommo grado quella maestra dell'errore e della falsità.che è l'immaginazione.

Dopo Camille, che era la seconda figlia (il primo figlio morì 15 giorni dopo la nascita), nacquero Louise, che rimase sempre accanto alla madre e diventerà una tranquilla moglie e madre e, a distanza di due anni, Paul, con il quale Camille ebbe sempre un legame intimo e complesso.Nel 1879, quando Camille aveva 15 anni, il padre  chiese un giudizio sulle opere che la figlia creava già da qualche anno allo scultore Alfred Boucher, che fu talmente impressionato dal talento della ragazza da proporsi come suo insegnante.Camille lottò per convincere il padre a trasferirsi a Parigi, fulcro della vita culturale ed artistica, molto più promettente rispetto alla provincia francese, dove non poteva esserci nessun avvenire per un artista. Il padre, che non si oppose mai alle sue aspirazioni, finì per assecondarla e nel 1881 i Claudel si trasferirono a Parigi dove Camille seguì le lezioni di modellato di Alfred Boucher all’Académie Colarossi ed affittò un atelier con tre amiche inglesi.Boucher, scultore di buon livello, le seguiva nei loro progressi. Tre anni dopo lo scultore dovette lasciare momentaneamente le sue allieve per un soggiorno-premio in Italia e chiese ad Auguste Rodin, ancora poco conosciuto, di sostituirlo nell’insegnamento, raccomandandogli in particolar modo Camille. Rodin riconobbe subito lo straordinario talento di Camille, che aveva ventiquattro anni meno di lui e nel 1883 la volle nel suo atelier, con le mansioni di modella e di sbozzatrice


Aveva solo 19 anni, una bellezza prepotente ed un fascino assoluto che riuscì a sconvolgere la vita di Rodin che aveva 43 anni ed un legame stabile con Rose Beuret, donna rozza e semianalfabeta che gli aveva dato un figlio, ma che non aveva sposato. Camille era una delle più promettenti allieve del Maestro e riuscì a conquistare un posto speciale nella vita di Rodin, diventando la sua amante e vivendo con lui anni di passione e di lavoro comune, aiutandosi ed ispirandosi a vicenda nel creare alcuni fra i più grandi capolavori scultorei di tutti i tempi.La comunanza di motivi e di linguaggio di Auguste e Camille è evidente, lavorano insieme in un continuo scambio di esperienze, al punto che diventa difficile distinguere il ruolo di ciascuno dei due nella realizzazione di determinate opere per le quali si potrebbe forse arrivare a parlare di “sculture a quattro mani”. 

Nell’atelier tutto si decideva insieme e Rodin lasciava spesso che Camille modellasse mani e piedi delle sue opereRodin affittò per loro due una dimora in rovina, una villa con un giardino selvatico dove avevano già abitato George Sand ed Alfred de Musset al tempo della loro storia d’amore.La famiglia Claudel finse d’ignorare per lungo tempo che Camille amava Rodin e che conviveva con lui; una situazione, per quei tempi, scandalosa per una ragazza di “buona famiglia”.Intanto Rodin diventò sempre più celebre tanto che nel 1887 ottenne la Legion d’onore, la massima onorificenza francese. Camille, nel frattempo, scolpì i suoi capolavori ed insieme a Rodin frequentò i grandi pittori Impressionisti. Per qualche tempo la sua fu una storia d’amore felice.Durante la relazione Camille rimase incinta, ma interruppe la gravidanza. Quanto questo aborto influenzò emotivamente la loro storia non si sa. Fatto sta che, quando Camille aveva quasi trent’anni, la relazione con Rodin cominciò a franare. Molte sono state le ipotesi sulle cause di questa crisi, ma non esiste documentazione che racconti perché Camille e Rodin si lasciarono. Camille credeva in una possibile, definitiva unione con Rodin, forse anche per liberarsi completamente da quei sotterfugi ed ipocrisie che aveva dovuto subire nel corso degli anni per l’illegalità di quell’amore, ma Rodin, pur amandola  e sostenendola nella sua vocazione, nel 1892 rifiutò di sposarla. I legami artistici e sentimentali tra loro due si allentarono, ma non s’interruppero definitivamente, tanto che lui l’aiutò in varie occasioni.Ma la rottura fu inevitabile. Camille e Auguste si rividero all’inaugurazione di una mostra, tornarono di quando in quando a scriversi ma non entrarono più l’uno nello studio dell’altra e viceversa. Nel 1893 Camille ruppe definitivamente i rapporti con Rodin, affittò uno studio-abitazione e realizzò per conto suo alcune sculture assai importanti.




Con la rottura con Rodin il forte temperamento di Camille cedette. Aveva voluto seguire la sua vocazione d’artista, aveva amato fuori dagli schemi prestabiliti ed ora, a trent’anni, tutto crollava. Aveva sfidato convenzioni e pregiudizi ma si ritrovava sola, delusa, non abbastanza stimata e considerata, come avrebbe voluto essere in rapporto al suo genio.Dopo Rodin, Camille incontrò il giovane compositore Claude Debussy. Non si sa se il loro fu un rapporto d’amore o d’amicizia, comunque Debussy, ancora sconosciuto, restò profondamente impressionato dalla scultrice. Dopo due anni non si frequentarono più. Probabilmente perché Camille non riusciva ad abbandonarsi al rapporto sentendosi, in fondo, ancora legata a Rodin.
Che significato può avere quella giovanile passione così coinvolgente e così cieca?
E quelle percezioni sottili, quelle magiche coincidenze colte qua e là nei risvolti segreti delle cose, cosa stanno a indicare?

Camille viveva sola in una piccola casa, numerose erano le difficoltà finanziarie. Essere scultori comportava spese ingenti per i materiali e Camille non riusciva a sostenerle, si trovava in difficoltà economiche e doveva ricorrere all’aiuto del padre e del fratello. 
Un profondo rancore verso Rodin le invase il cuore e la mente. Cominciò a soffrire di ossessioni. Pensava che Rodin volesse impossessarsi delle sue opere e ne distrusse alcune; immaginava anche che Rodin la facesse spiare dai suoi assistenti per rubarle le idee e che volesse ucciderla. Non era vero, ma tutto ciò era chiaramente il segnale di una grave forma di depressione con manie di persecuzione.Ormai costretta a vivere in ristrettezze economiche, andava sempre più isolandosi e compì vere e proprie stravaganze.
Si chiuse nel suo atelier, si isolò e visse in povertà tra gatti, ragnatele e marmi. Completò le sue opere e le distrusse a colpi di martello. Vere e proprie “esecuzioni”, come lei stessa le definì. Nel 1911 lo stato di salute di Camille si aggravò; viveva in isolamento quasi totale, in condizioni d’indigenza, nel disordine e nell’abbandono.Alle difficoltà e alle ossessioni si aggiungono gli odi familiari, a Villeneuve è persona non gradita, sua madre la subissa di rimproveri e la condanna, la sorella Louise è poco incline all’indulgenza, il fratello Paul è lontano dall’Europa e, dopo la conversione, si trova a condannarla come peccatrice. Solo il vecchio padre, di nascosto, le manda del denaro.Il 3 marzo 1913 il padre morì. Uomo colto ed illuminato, aveva sempre cercato di aiutarla, appoggiando ed approvando la sua aspirazione alla scultura.
Verso quale polo orienterà la sua vita? E dei suoi sogni che se ne farà? Quale sarà la sua bussola esistenziale?Soprattutto quali integrazioni e quali cambiamenti si rendono necessari? Cambiare è difficile, fa paura.
La psiche umana è complessa dentro di lei si muovono differenti personaggi,ciascuno con la sua voce ,con le sue domande,col suo modo di cercare risposte,insomma con la sua inclinazione.Con la sua autonomia.Va da sè che occorre un regista che li sappia rappresentare dentro un'unità coerente:diversamente è caos.

La follia di Camille fu l’argomento di una riunione di famiglia, cui parteciparono anche il marito della sorella, magistrato, ed il fratello Paul che, in quanto diplomatico di carriera, riteneva Camille troppo ingombrante anche per lui che pure le voleva bene e decisero di condannarla ad essere cancellata dalla vita sociale. Il 10 marzo 1913, per volontà dei familiari e soprattutto della madre che firmò la carta per farla interdire, venne internata nell’Ospedale psichiatrico di Ville-Evrard e poi, allo scoppio della prima guerra mondiale, fu trasferita a Montdevergues, vicino ad Avignone.Nei primi anni d’internamento la madre fece vietare ogni visita alla figlia. “Tenetevela, ve ne supplico… ha tutti i vizi, non voglio rivederla, ci ha fatto troppo male”. Così scriveva la madre al Direttore del Manicomio senza riuscire a perdonarle le sue scelte anticonformiste. Camille sembra dimenticata da tutti: la madre e la sorella non le faranno mai visita, il fratello Paul solo due volte in trent’anni d’internamento. Le sue condizioni sono alterne, passa da fasi in cui è preda, secondo i rapporti medici, di manie di persecuzione, a momenti di maggiore serenità. In manicomio non era violenta né aggressiva; col passare degli anni diventò sempre più tranquilla e chiedeva insistentemente di tornare a casa.Nel 1917 morì Auguste Rodin, all’età di 77 anni. Nel 1925 gli stessi medici proposero un tentativo di riavvicinamento alla famiglia, consigliando di farla rientrare a casa. Ma questa soluzione non fu mai presa in considerazione dai familiari. Camille, come testimonia una sua lettera, rifiutò anche le sollecitazioni che le venivano rivolte di riprendere la scultura. Resterà rinchiusa, sentendosi una prigioniera ed alternando lucidità e follia.Nel 1942 le condizioni fisiche ed intellettuali di Camille registrarono un progressivo indebolimento e il 19 ottobre 1943, all’età di 79 anni e dopo trent’anni d’internamento, morì. Nessuno, nemmeno il fratello, partecipò al suo funerale.Successivamente l’Ufficio Cimiteri comunicò alla famiglia Claudel che il terreno dove era stata sepolta Camille Claudel era stato requisito per “necessità di servizio” e che la sua tomba, sormontata da una croce recante le cifre “1943 - n. 392”, non esisteva più.Così la ricordò suo fratello Paul, riassumendo l’amara vicenda della sua vita: “... tutti questi doni superbi non sono serviti a nulla; dopo una vita estremamente dolorosa, è pervenuta al fallimento completo.”


(«Contiamo infiniti cadaveri. Siamo l' ultima specie umana»), Amelia sembra tuttavia non arrendersi. Si impone «il desiderio di vincere la battaglia contro il male, la tristezza, le fandonie, l'incoscienza, la pluralità dei mali». IL forte istinto alla sopravvivenza e la risorsa vitale dell'ironia saranno tra le forze volte a contrastare la pulsione di morte sempre sottesa alla sua parola poetica. Ciò che ne risulta è un linguaggio poetico che si dà un ordine e lo distrugge nel medesimo istante, scardinando la sintassi consueta per un nuovo ordine visionario, le regole metriche per un¿originale costruzione musicale, introducendo come soggetto la donna, quale voce poetica non tradizionale. 

Libertà, ricerca e musicalità nella poesia di Amelia Rosselli

“La santità dei santi padri era un prodotto sì cangiante ch’io decisi di allontanare ogni dubbio dalla mia testa purtroppo troppo chiara e prendere.il salto per un addio più difficile. E fu allora che la santa sede si prese la briga di saltarei fossi, non so come, ma ne rimasi allucinata…
E fu allora che le misere salme dei nostri morti rimarono per l’intero in un echeggiare violento,
oh io canto per le strade ma solo il santo padre
sa dove tutto ciò va a finire. E tu le tue sante brighe porterai ginocchioni a quel tuo confessore
ed egli ti darà quella benedetta benedizione
ch’io vorrei fosse fatta di pane e olio. Dunque
come dicevamo io ero stesa sull’erba putrida
e le canzoni d’amore sorvolavano sulla mia testa
ammalata d’amore, e io biascicavo tempeste e preghiere e tutti i lumi del santo padre erano accesi. La santa sede infatti biascicava canzoni puerili anche lei e tutte le automobili dei più ricchi artisti erano accolte tra le sue mura;
o disdegno, nemmeno la cauta indagine fa si che
noi possiamo nascondere i nostri più terrei difetti, come per esempio il farneticare in malandati
versi, o lagrimare sulle mura storte delle nostre ambizioni: colori odorosi, di cera, staglíati
nella odorante stalla dei buongustai. Ma nessun
odio ho in preparazione nella mia cucina.solo la stancata bestia nascosta. E se il mare che
fu quella lontana bestia nascosta mi dicesse
cos’è che fa quel gran ansare, gli risponderei
ma lasciami tranquilla, non ne posso più della tua lungaggine. Ma lui sa meglio di me quali
sono le virtù dell’uomo. Io gli dico che è più felice la tarantola nel suo privato giardino,
lui risponde ma tu non sai prendere. Le redini
si staccano se non mi attengo al potere della razionalità lo so tu lo sai lo sanno alcuni ma ugualmente la cara tenda degli scontenti a volte perfora anche i miei sogni. E tu lo sai. E io
lo so ma l’avanguardia è ancora cavalcioni su
de le mie spalle e ride e sputa come una vecchia fattucchiera, e nemmeno io so dove è che debbo prendere il tram per arricchire i tuoi sogni,
e le mie stelle. Ma tu vedi allora che ho perso anche io le leggiadre risplendenti capacità di chi sa fregarsene. Debbo mangiare. Tu devi correre.
Io debbo alzar.Tu devi correre con la coda penzoloni. Io mi alzo, tu ti stiri le braccia in un lungo penibile addio, col sorriso stretto e duro sulla
tua bocca non troppo ammirabile. E cos’è quel
lume della verità se tu ironizzi? Null’altro
che la povera pegna tu avesti dal mio cuore lacerato. Io non saprò mai guardarti in faccia; quel che desideravo dire se n’è andato per la finestra,
quel che tu eri era un altro battaglione che io non so più guerrare; dunque quale nuova libertà
cerchi fra stancate parole? Non la soave tenerezza di chi sta a casa ben ragguagliato dalle alte
mura e pensa a sé. Non la stancata oblivione
del gigante che sa di non poter rimare che entro
il cerchio chiuso dei suoi desolati conoscenti;
la luce è un premio di Dio,ed egli preferì vendersela che vedersela sporcata dalle tue oblivíonate mani. Non so cosa dico, tu non sai cosa cerchi, io
non so cercarti. Nel mezzo di una luce che è
chiara e di un’altra che è la cattiveria in persona cerco il ritornello. Nel mezzo d’un gracile cammino fatto di piccole erbe trastullate e perse nella sporca terra, io cerco, e tu ti muori presso un albero infruttuoso, sterile come la tua mano.
0 vita breve tu ti sei sdraiata presso di me che
ero ragazzina e ti sei posta ad ascoltare su
la mia spalla, e non chiami per le rime. Io
allungo le gambe e vendo i parafanghi con un
color prezioso, tu ti stilli contento in un luccichio di cattive abitudini. Io mordo la mela per sostenere queste mie deboli vene al collo che scoppia di
pena, e la macchina urla più forte della mia sensata voce. Io non so cosa voglio tu non sai
chi sei, e siamo quasi pari…”Da Libellula
Pubblicato in Amelia Rosselli


Rosselli, Amelia (Parigi 1930 – Roma 1996), poetessa italiana. Figlia di Carlo Rosselli, di cui curò l’edizione dell’Epistolario familiare (1979), lasciò la Francia per trasferirsi prima in Inghilterra, poi negli Stati Uniti e infine in Italia. Collaborò a riviste quali ‘Botteghe oscure’, ‘Il Verri’, ‘Il Menabò’, affiancando alle attività di poetessa, traduttrice e consulente editoriale quella di musicista e compositrice. Morì suicida.
La sua ricerca poetica, fortemente innovativa nelle forme e dai toni profondamente dolorosi, dà vita ad alcuni dei momenti più alti della sperimentazione letteraria contemporanea. Tra le sue opere: Variazioni belliche (1964), Serie ospedaliera (1969), Documento 1966-1973 (1976), Primi scritti 1952-1963 (1980), Impromptu (1981), Appunti sparsi e persi (1983), il poemetto La libellula (1985, composto nel 1958), Sleep. Poesie in inglese (1992) e Diario ottuso (1996), ora raccolti in Le poesie (1997).
Indubbia è, tuttavia, la passione che autenticamente anima la pagina della Rosselli, a cominciare da quelle “poesie per Rocco Scotellaro” che, composte nel 1953 in una sorta di “Cantilena” (così il titolo), segnarono per tempo la tragica disposizione di questa poesia, ma che sono anche testimonianza della sua straniata leggerezza, della sua vena affettuosa e fantastica (“Rocco morto / terra straniera, l’avete avvolto male / i vostri lenzuoli sono senza ricami / Lo dovevate fare, il merletto della gentilezza!”).
La tragicità sembra iscritta perfino cromosomicamente nel destino di Amelia Rosselli, e non sarà qui il caso di insistervi, se non forse per segnalare che una nota ai testi meno avara avrebbe costituito un utile contributo, e consentito un aggancio alla realtà storica che molte cose avrebbe chiarito anche sul piano dell’interpretazione.
prosa tratta da www.cepollaro.it/SuppV.pdf, Ed ecco la poesia:]
dopo un anno
pungeva brezza marina allo svoltare
di una strada
andati
compatti paesaggi sfilacciati d’un colpo
dalla corsa
dell’auto
non dovrei tanta ferocia agli amici di un tempo: dopotutto ci si dava
da fare
anche quella è una strada se la via
è l’unica
via
per sette anni col cuore non consentì né affermazione né negazione: ecco
troppo ho affermato e negato troppo distinto e contrapposto e troppo
sono dentro ancora a quel viluppo
amelia rosselli mi disse due anni prima di gettarsi nel vuoto che mi spettava
isolamento
e grande lavoro
che tutto quel cianciare era portato
di gioventù e imperizia
che la faccenda era davvero più dura non ho mai capito
perché mi amasse
forse perché coprendola con plaid di fortuna sul gelido aereo avevo detto che perfino
nel nostro mestiere
c’è cuore
il fatto è che sono nuovo
di queste parti ancora solo per qualche minuto
scevro
d’ansia il resto del tempo è ancora tutto
imballato nello stesso
modo come appunto in un trasloco
e oggi mariano dice che a lui è capitato
di vivere nel tempo che una speranza durata
duecento
anni
finisce e inquadra
anche il resto delle perdute
battaglie
in questa cornice e giunge così lontano come se diderot
in persona avesse gettato
la bomba
per farla esplodere davanti ai nostri piedi di fine
millennio e corsa
ma poi di cosa è fatta una storica
speranza
diciamo ci fu grande scommessa nell’ottobre
del diciassette che c’era di tutto e il contrario
che poi ha prevalso
quello che a noi rimase non era quell’ottobre ché tutto
era già finito
prima dell’anno della nostra nascita
ciò che mi divide da lui è questo credere che la storia
sia compatta speranza o collettiva disperazione: non possiamo sapere
come è la cosa nell’insieme
di queste cose non bisognerebbe neanche parlare ma allora di cosa
ha senso parlare
per sette anni non consentire col cuore all’affermazione o alla negazione
ritrovarsi ad agire
più dentro
più addentro del mondo e dopo
aver molto dimenticato
allora soltanto
uscire

Era il suo vissuto più devastante , la sua Ombra, la contraddizione più acuta e dolorosa: sentiva che i valori a lei più cari venivano condannati,come fossero un'eresia.La poesia non analizza ma sintetizza, non spiega ma evoca, non definisce ma allude.Amelia era stata vittima di pregiudizi e di diffidenze che l'avevano fatta soffrire e avevano distorto la sua dignità.Ma appunto ciò che il pensiero razionalizzante considera eresia coincide con ciò che l'Anima considera essenziale veritiero.
Questo è il vero dramma della coscienza contemporanea: L'io convenzionale mette al rogo ciò che è necessario   all'Anima e l'Anima per reazione vorrebbe mettere al rogo ciò che è necessario per l'Io , ma certo l'anima non dispone dei mezzi e dell'appoggio generalizzato di cui dispone la coscienza razionale,


Quando Amelia Rosselli morì, l’ 11 febbraio 1996, gettandosi dalla finestra del suo appartamento romano di via del Corallo, si pensò che quel suicidio avesse posto termine a un lungo silenzio creativo, ulteriore dolorosa ferita in una vita segnata dalla malattia mentale. Una malattia che, come sottolinea il cugino, Aldo Rosselli, «fa parte della sua voce, della sua voce vera, della sua voce interna, ma anche esterna, quella delle sofferenze che ha affrontato nella vita». In realtà in quel periodo Amelia aveva appena ricominciato a scrivere, in inglese e in italiano, con il bilinguismo tipico della sua opera matura. Ora quei componimenti inediti (insieme ad altri comparsi su alcune riviste), rintracciati dalla ricercatrice Silvia Morgani fra le carte del Fondo Manoscritti dell’ università di Pavia, vengono pubblicati nel volume La furia dei venti contrari.




Avversità, persecuzioni, tragedie e morti segnano drammaticamente la vita di Natalia Ginzburg
Natalìa Ginzburg
Ci vuole un certo coraggio a caricarsi addosso il malessere di una confessione ossessiva, il dolore e lo scatto repentino di una colpevolezza criminale. Ci vuole coraggio a restituire quel delirio rabbioso e insieme meccanico che la gelosia soffocata innesca per effetto di un tradimento. In scena, una donna sola avvinghiata a una sedia con gli occhi pesti e le labbra rosse come le scarpe. A queste condizioni, con alle spalle un pannello di tappezzeria fiorita e stantia, Sabrina Impacciatore dà voce a un copione tratto dal romanzo È stato così di Natalia Ginzburg.L’amore uccide, la dolorosa confessione di una moglie tradita che ha ucciso il marito.
La Ginzburg non va ricordata solo per i suoi romanzi e per la produzione saggistica ma anche per la produzione teatrale.
Il teatro della Ginzburg è un teatro di parola , un teatro dell'assurdità che però non presenta somiglianze, né tecniche, né ideologiche, con il teatro dell'assurdo di marca maschile ed esistenziale. Gli uomini, nel teatro della Ginzburg, sono quasi sempre adulti ma anche insensati, però nella prospettiva comicamente più greve di chi ragiona, o ci prova, sul senso della propria vita. Le donne, invece, soffrono e splendono di una vocazione per l'originalità, propria e altrui.
Fiori. Fiori per terra, il primo appuntamento. Fiori in carta da parati, il sì delle nozze. Un fiore sulla testa, l’ultima carezza da sposa ai sogni d’amore. Quando si alzano le luci, il tinello qualunque di una casa qualunque è già un cimitero. Una moglie ha spento gli occhi del marito con un colpo di pistola. Quegli occhi che per una vita insieme non sono stati per lei, ma per un’altra.
in scena un’intensa e misurata Sabrina Impacciatore.
Arriva a passi contratti dall’affanno assassino e va a sedersi davanti ad un microfono. La confessione deve essere estesa a tutti – e a se stessa – pubblica anche nei sussurrati più intimi. Tiene unite le gambe per le ginocchia. Le mani puntate sulla sedia. Come un corridore pronto allo scatto. Si muoverà però una volta sola, per asciugarsi quelle lacrime che la legge di gravità manda dritte nella voce, riflessa nei mille pezzi del cuore infranto. Il viso stravolto e ingenuo, acceso di trucco dark e labbra rosse, è la mappa del vuoto d’amore graffiato da Sabrina Impacciatore: fatti, luoghi, incontri esplodono sulla riva degli occhi, a valle delle guance.
Incontri di ombre. La luce, sul palco, la divide tra chi è e chi, invece, vorrebbe essere. Come l’altra, Giovanna. L’unica che ha un nome, insieme all’amica Francesca. Non ce l’ha la moglie, non ce l’ha il marito. Li hanno persi quando hanno smarrito quello comune di famiglia.
“Io non lo saprò mai cosa vuole davvero”. L’unione che li ha divisi per quattro anni sembra ricucirsi con la morte della loro bambina. Intravede uno spiraglio nella ricerca continua di sentirsi amata: mettere al mondo una nuova creatura. Ricominciare tutto daccapo. Un desiderio disperato che si infrange contro lo scoglio di un uomo che in lei vede la fotocopia sbiadita della vita che avrebbe (avuto) con Giovanna.
Si chiude la porta di coppia, ma resta aperta quella dello studio, con il cassetto in cui riposa muta la pistola. Riacquisterà la parola nel fuoco del grilletto.
Lo sparo va a strappare il figlio dalla vita che non ha avuto. Un nuovo inizio, che ha in canna la stessa pallottola della fine. E’ stato così, sarà ancora così. Quell’amore non riamato è tutto ciò che le resta.
Quando allora tutto ricomincia da zero e le luci calano su un finale speculare all’inizio, nella testa rimbomba il grido di una donna mai accolta, incastrata in una vendetta mortale e in una stanza priva di finestre. Non serve aver condiviso, ma il ragionevole dubbio che, oltre il sangue di quell’isolamento feroce, resista il diritto a una confessione aperta. «Fra noi e i personaggi che allora inventiamo, che la nostra fantasia illanguidita riesce tuttavia a inventare, nasce un rapporto caldo e umido di lagrime, d’una intimità carnale e soffocante. Abbiamo radici profonde e dolenti in ogni essere e in ogni cosa del mondo, del mondo fattosi pieno di echi e di sussulti e di ombre, a cui ci lega una devota e appassionata pietà». Così scrive Natalia Ginzburg ne Il mio mestiere e di una teoria umana della scrittura, sia essa letteraria o teatrale, ci si augura di ritrovare altre scene simili.  






"Gli scaffali erano pieni, ma c'era grande abbondanza di libri di mio padre, cioè libri di istologia, biologia e medicina. Mi sentivo in esilio dentro quella casa, tanto povera di poesie e romanzi".
E' stato così

«Il filone cui la Ginzburg tende è quello della narrativa tutta occhio, tutta episodio, tutta tacita simpatia umana alla Mansfield»
(Italo Calvino)
Romanzo scritto tra l’ottobre 1946 e il gennaio 1947 e pubblicato nello stesso ’47 da Einaudi. Narra la storia di una moglie che uccide il marito dopo una drammatica e umiliante vita in comune. La narrazione, che si apre e si chiude con lo sparo che uccide Alberto, si snoda su lunghissimi flash-back che, ricostruendo minuziosamente la vita della giovane protagonista prima e dopo il matrimonio, spiegano i motivi che l’hanno condotta al tragico gesto. L’incontro con Alberto ha cambiato radicalmente l’esistenza di un’insegnante di provincia, che vive in una modesta pensione e a cui nessuno prima si era mai interessato. Ella accetta il matrimonio, pur sapendo che l’uomo è da molti anni innamorato di Giovanna (a sua volta sposata e madre di un bambino) con cui intrattiene una relazione tormentata e dolorosa. Il fallimento familiare appare subito evidente ai due sposi, molto diversi tra loro e assolutamente incapaci di comunicare. Nemmeno la nascita di una figlia riesce a migliorare la situazione e a fermare le ripetute e prolungate “fughe” di Alberto e Giovanna. Ruotano intorno ai due protagonisti-chiave anche personaggi secondari ma non meno importanti dal punto di vista emozionale, quali Francesca, cugina della protagonista, di facili costumi e nauseata dagli uomini e Augusto, amico di Alberto, isolato e malinconico (anch’esso una volta innamorato di Giovanna). La situazione precipita tragicamente quando la piccola muore per una meningite: la giovane donna, disperata per la perdita della sua unica ragione di vita e di gioia, tenta un’ultima riconciliazione con il marito. Quando la loro vita insieme sembra, per la prima volta, ottenere risultati positivi, Alberto torna a pensare a Giovanna; all’annuncio di un ennesimo viaggio, lei prende la rivoltella che il marito tiene nel cassetto e gli spara “negli occhi”. Nel suo tono tragico, che l’autrice riproporrà solo in alcune situazioni della sua posteriore produzione teatrale, il romanzo risulta ben diverso da quello d’esordio, “La strada che va in città”, che si snodava in allegro, pur poggiando sul medesimo tema: l’impatto della Ragazza col mondo, il bisogno, l’imperativo di uscire dall’infanzia come ci si libera da un torpore e ci si disintossica da un veleno. Il linguaggio della Ginzburg risulta semplice e immediato, ridotto all’osso, ma nello stesso tempo indagatore e trivellatore dell’anima.
«Fra noi e i personaggi che allora inventiamo, che la nostra fantasia illanguidita riesce tuttavia a inventare, nasce un rapporto caldo e umido di lagrime, d’una intimità carnale e soffocante». La guerra si è da poco conclusa; la scrittrice è tornata a Torino, dove lavora presso la Einaudi, e si è riunita ai figli dopo la separazione conseguente alla
perdita improvvisa del marito, imprigionato a Roma dai tedeschi nel corso della sua cospirazione antifascista e morto a Regina Coeli nel '43.
Le vie che collegano la scrittrice ai tempi felici di La strada che va in
città sono dunque « sconvolte e interrotte ».
 Il romanzo, che già nel titolo manifesta lo spirito di rassegnata constatazione dei fatti che anima la protagonista, presenta delle analogie con il racconto Mio marito: anche qui l'elemento maschile di una coppia arrivata stentatamente al matrimonio compromette il precario rapporto con la moglie persistendo nel coltivare una vecchia relazione con una
32 donna sposata, ma determina alla fine la vendetta della tradita, che lo uccide con un colpo di rivoltella. La vicenda, narrata in prima persona,si apre con l'enunciazione fulminea dell'omicidio:
 Gli ho sparato negli occhi.
   M'aveva detto di preparargli il termos per il viaggio. Sono andata in cu-
cina e ho fatto il tè, ci ho messo il latte e lo zucchero e l'ho versato nel
termos, ho avvitato per bene il bicchierino e poi sono tornata nello studio.
Allora m'ha mostrato il disegno e ho preso la rivoltella nel cassetto del suo
scrittoio e gli ho sparato.



   Una volta denunciata l'effettuazione di questo gesto conclusivo di una
vicenda, alla memoria della protagonista non rimane che revisionare un
ordine compiuto e irrimediabile, presente alla coscienza in un fluido li-
vellamento di spaccati temporali colti attraverso la tecnica moderatamente
rapsodica dei flash-back. Colpisce immediatamente l'omogeneità dei tempi
verbali adoperati per avvenimenti piú recenti o meno recenti: l'epilogo
tragico della vicenda narrata è al passato prossimo (« Gli ho sparato ne-
gli occhi ») cosí come sono al passato prossimo sia le azioni susseguenti
all'omicidio (« Sono stata su quella panchina non so quanto tempo »),
che quelle ormai lontane, relative al primo incontro con il futuro marito
(« Ha fatto un disegno della mia faccia a matita nel suo taccuino. Ho
detto che mi pareva che mi assomigliasse, ma lui ha detto di no e ha
strappato il foglio ») . Nell'atto rievocativo, pertanto, i vari strati diacro-
nici della storia sono affiancati a livello sincronico, evidenziando la con-
temporancità mentale conferita loro dalla memoria. Per questo motivo la
stessa decisione di suicidarsi che ci viene comunicata dalla protagonista
alla fine del romanzo--essendo essa contrassegnata dall'uso del passato
prossimO già adoperato per avvenimenti remoti -- viene proiettata in
lontananza, come se venisse comunicata e osservata da distanze impreci-
sate, attraverso la fissità ipnotica della disperazione.
   Mediante gli scavi introspettivi di una moglie tradita, la Ginzburg ci
offre una delicatissima indagine del mondo interiore femminile: con acu-
me psicologico (sempre corposamente aderente ai fatti) coglie la lenta
evoluzione della ragazza verso l'amore, i graduali e pazienti compromessi
con gl'ideali della fantasia, la maternità nevrotica e ossessiva, nella quale
si scaricano le frustrazioni di una precaria vita sentimentale, le fanta-
sticherie su adulteri mai consumati mosse dal patetico desiderio di emu-
lare l'infedeltà del marito. Il destino della donna, fa]limentare quanto
quello dell'uomo, si differenzia comunque, rispetto a quest'ultimo, per
un'impronta piú scopertamente emotiva e soffertamente vittima, per un
coinvolgimento viscerale e biologico, oltre che affettivo, nei rapporti
umani.

   Nell'ambito della visione negativa del mondo borghese, l'uomo si af-
faccia come prototipo di una virilità degradata, svincolato da salde pro-
spettive morali o piú generalmente ideologiche, impigliato nell'egoismo
e nell'avversione al lavoro, drasticamente umiliato anche a livello di at-
tributi fisiologici, dimessi e pateticamente indifesi: « un uomo piccolo
con un impermeabile bianco e una spalla piú alta dell'altra ».
   Alla disperazione monocorde della protagonista fa eco il disorienta-
mento dei personaggi femminili circostanti, capaci solo di ribadire la
propria condizione d'ignoranza nei confronti della vita, affrontata pero
dispersivamente, senza necessità di ripiegamenti interiori. La triade pro-
tagonista-Giovanna-Francesca permette d'indagare sugli esiti eterogenei
della crisi attuale della donna: Francesca, antitetica alla protagonista,
nega la famiglia e rivendica i suoi diritti a libertà sessuale ed indipendenza
economica, ma trasferisce nel perseguimento di un codice persona]e di
vita la nevrotica ingordigia di chi non ha ancora assimilato equilibrata-
mente la carica innovativa dell'odierna situazione femminile. Giovanna,
Invece, Si destreggia con facilità fra i compromessi di un ordine familiare
tradizionale ed un legame sentimentale irregolare. Ma la Ginzburg sce-
glie di seguire da vicino il piú indifeso di quejti tre personaggi, delicato
e commovente nei suoi modesti ideali borghesi, ma chiuso in un provin-
ciallsmo passivo ed accentrato unicamente su un'incompresa dedizione
sent]mentale al marito, di cui controbilancia la sostanziale inerzia emotiva
con un esercizio ostinato del dolore, allontanando d.sé propositi di
viaggi, lavori, interessi personali o responsabilità attive affrontate al-
l'esterno della famiglia.
E significativa, a questo riguardo, la quotidianizzazione dell'em-
blema di violenza che porterà all'omicidio la moglie tradita: la storia
della rivoltella di Alberto, legata ad un passato fallimentare di mancati
suicidi e compagna di un'arma gemella posseduta da Augusto, viene in-
quadrata in retrospettiva dai personaggi della vicenda, e proseguita poi
dalla protagonista che la coinvolge prolungatamente nelle sue attività
casalinghe, assimilandone le potenzialità distruttive ed allusive ad un
« aldilà >nel suo monotono orizzonte giornaliero, dove la pregnanza di
calcoli segreti si cela soffocatamente dietro la meccanicità delle abitudini:

Allora ho cominciato a pensare a quella rivoltella. Ci pensavo come prima
certe volte pensavo di allattare un nuovo bambino. Ci pensavo e mi sentivo
calma, ci pensavo mentre rifacevo il letto e m.ntre sbucciavo le patate e
mentre stiravo le camicie di Alberto. Ci pensavo mentre salivo e scendevo
le scale, proprlo cosí come avevo pensato di allattare un nuovo bambino.
    Il buio si presenta come correlativo essenziale di questa ovattata per-
cezione di vita-morte, e l'opacità monocrornatica dei claustrofobici interni
familiari in cui si svolge l'azione riflette adeguatamente quella che ac-
compagna i solitari ripiegamenti introspettivi della protagonista:
 Sono stufa di stare sempre al buio da sola e guardare sempre dentro di me.
     Cosí mi pare d'esser sempre al buio. Mi pare d'esser cieca e di muovermi
toccando le pareti e gli oggetti.
    Guardavo la sua faccia e mi pareva che lui fosse un po' come me, con
gli occhi fissi sempre nel gran pozzo buio che aveva di dentro.

    Il tanfo delle chiuse esistenze borghesi che ci si presentano viene in-
fine adeguatamente commentato dalla vistosa presenza -- nella casa di
Alberto--di oggetti decrepiti e polverosi, che da vecchi appannaggi di
una madre defunta assurgono a segni rappresentativi di decadenza e iner-
zia spirituale (inserendosi, però, in un sobrio quadro documentaristico,
senza dar luogo ad estenuati indugi crepuscolari).
    In sostanza il vittimismo della protagonista, pur se rapportato con
commozione trattenuta alla crudeltà o incomprensione del mondo esterno,
viene riconosciuto dall'attenta indagine della scrittrice come frutto col-
pevole di passività ed automutilazione: non per nulla viene posto ac-
canto alla donna, in implicito raffronto, l'esempio di Augusto, l'unico
che sia collegato a lei da afíìnità di carattere, e che riesca però a salvarsi
dall'impatto disastroso di esperienze negative attraverso le sue ricerche
di studioso e la pubblicazione di libri. Resta il fatto, comunque, che
le situazioni di raccoglimento involutivo e rassegnato dei personaggi sulle
proprie sofferenze rimangono quelle preferite dalla scrittrice, nelle qua]i
le è possibile cogliere il ritmo di chiusa tristezza, di pudori dolorosi e
stupiti, legati alla fragilità di circoscritti universi domestici. Sentimenti
espressi con fine intuito ed equilibrio narrativo e stilistico, ma rischiosi
in quanto precludono, nel loro respiro breve e appartato, contatti piú 
diffusi ed aperti col mondo esterno, costringendo l'itinerario narrativo in
prospettive limitate e recluse.
Kerènyi offre tanti esempi .quando l'onda ricca dell'amore si ritira e lascia il posto alle secche del dolore e dello smarrimento allora si crea la condizione necessaria per costringere l'Io a porsi domande che non si sarebbe mai posto ,a vedere immagini che non avrebbe mai visto: esse saranno i nuovi intermediari verso un'altra visione della realtà che potenzialmente riunisce in sè ,reintegra , la dimensione verticale della vita con quella orizzontale.
Lo stile di Natalia Ginzburg

Caratteristiche principali della scrittura di Natalia Ginzburg sono: la sua naturale ritrosia a scoprirsi, l'inclinazione ad esprimersi con semplicità e la tendenza a preferire le immagini ai lunghi discorsi, con il risultato di essere più vera ed espressiva.
Esempio fondamentale di questo suo "parlare per immagini" è, in "Lessico famigliare", Leone Ginzburg ricordato attraverso un ritratto appeso nell'ufficio di Giulio Einaudi, in questo modo l'"io" più intimo e doloroso è ridotto a un'immagine estemporanea e, allo stesso tempo, significativa. La figura del marito viene anche rievocata dalla poesia "Memoria" in cui l'immagine della città rende bene il senso di solitudine dell'autrice: "…Se cammini per la strada nessuno ti è accanto. Se hai paura, nessuno ti prende per mano. E non è tua la strada, non è tua la città. Non è tua la città illuminata: la città illuminata è degli altri…". Di importanza notevole il brano "Ritratto di un amico" contenuto nel libro "Le piccole virtù" in cui Natalia Ginzburg parla dell'amico Cesare Pavese facendo nuovamente riferimento all'immagine della città, questa volta paragonata alla figura stessa dell'amico: "…La nostra città rassomiglia, noi adesso ce ne accorgiamo, all'amico che abbiamo perduto e che l'aveva cara; è, come era lui, laboriosa, aggrondata in una sua operosità febbrile e testarda; ed è nello stesso tempo svogliata e disposta a oziare e a sognare…".

Lo stile incredibilmente concreto dell'autrice esprime in modo totale l'autenticità e l'intelligenza della stessa. La sua scrittura è connotata da ironia, umanità e confronto col vissuto. E' lei stessa ad ammettere che "scrivere" non è un mestiere che tiene compagnia, non rappresenta una consolazione, né uno svago. Per scrivere cose che servono bisogna sentirsi stanchi; è lo scrivere in se stesso che deve stancare e deve rifuggire dall'evasione.

Interessante anche la distinzione che fa l'autrice tra l'essere felici o infelici quando si scrive e il modo in cui questo possa influire sulla scrittura stessa. Per l'autrice la felicità rende la fantasia più fervida mentre l'infelicità vivacizza la nostra memoria. La sofferenza rende la fantasia debole e pigra; non riusciamo a distogliere lo sguardo dalla nostra vita e dalla nostra anima, dalla sete e dall'inquietudine che ci pervade. Il dolore, dunque, può costituire un pericolo come lo può costituire la stessa felicità. Questo perché quando scriviamo c'è il rischio che uno dei due stati d'animo prevalga sull'altro rendendo il nostro testo povero, precario e scarsamente vitale, cosa che non succederebbe se riuscissimo a combinare i due sentimenti.Natalia Ginzburg ammette, comunque che, avvicinandosi sempre di più all'età adulta, lo stato d'animo può assumere un'importanza ridotta rispetto alla scrittura, perché a un certo punto della vita si hanno tante perdite che c'è sempre un velo di profonda infelicità.
Interessante è il rapporto molto stretto tra il romanzo "E' stato così" della Ginzburg e "Dalla parte di lei" della De Céspedes due anni dopo. In entrambi i romanzi, infatti, le protagoniste uccidono l'uomo amato, seppur in circostanze diverse e inoltre, nell'intervallo di tempo tra queste due pubblicazioni, la Ginzburg scrive sulla rivista "Mercurio" un brano intitolato "Discorso sulle donne", dove parla della difficoltà di queste ad essere attive nella storia. Secondo la Ginzburg le donne sono risucchiate dal gorgo dell'interiorità, come da un "pozzo" a causa del loro modo "autoreferenziale" di pensare e di sentire.
Sarà la De Céspedes stessa a rispondere a questo articolo affermando che le donne attingono proprio a questo "pozzo" la loro speciale forza; la difficoltà consiste nel riuscire a spostare nella storia la contraddittorietà del mondo interiore.
Nei libri della scrittrice sembra che l'umanità abbia rinunciato a cercare il senso della vita e abbia accettato di vivere alla giornata. L'esistenza diventa una triste cantilena e il fluire della vita avvolge tutto indistintamente: la guerra, le morti, le distruzioni, pari ai fatti quotidiani, alle parole senza peso. Riaffiora, ne "Le piccole virtù" il tema dell'incomunicabilità e della solitudine, che implica un duplice silenzio: "il silenzio con se stessi e il silenzio con gli altri, l'una e l'altra forma ci fanno ugualmente soffrire" e il silenzio visto come peccato: "…il silenzio deve essere contemplato, e giudicato anche in sede morale, perché il silenzio, come l'accidia e come la lussuria, è un peccato".



sei forse l’altra di me che non conosco
più vera più reale
più importante o -se vuoi – più profonda
sei la cima del pensiero che tocca i cieli
di tutti i mondi
sei forse l’altra di me che ho visto nei sogni
quella figura alta e bianca senza volto
sul viale deserto
sei il sentiero percepito dentro
e la visione che mi accompagna
con cieli in fiamma e grevi di nubi
intrico flessuoso di rami e di foglie
straniera in me ma forse sei me
scomparsa e superstite
ipazia o antigone
un mondo chiuso dentro


Maria Allo
L'inconscio poetico e visionario trova il modo per esplicitare la visione che permea il suo cuore creativo.L'immaginazione che nasce dalla visione interiore è il filo d'oro della vita psichica , quel quid che occorre per ricomporre i frammenti in un'unità significativa. La ricerca di un'immagine profonda di sè ,tesa verso lo spirito, la trascendenza e la riconnessione dell'eterno col contigente, scorgendone per visionaria creatività i nessi nascosti è in ogni donna.Nei momenti di maggiore malessere e lacerazione,quando la realtà contingente ci soffoca e ci fa apparire estranee a noi stesse. Nei momenti drammatici in cui sentiamo che il nostro mondo interiore , la nostra soggettività , non possono trovare rispecchiamento e accoglimento all'esterno.Quando ci sentiamo così sommerse da un sentimento di esilio e di estraneità,veniamo nuovamente
calamitate nel buco nero delle nostre ferite primarie .

FRAMMENTI





un appun­tito doman­darsi
su piedi lubrificati
non scansa la morte
ma trattiene la vita
la trattiene docile in catene
erba alle calcagna
e labi­rinti sopra il prato
*
alberi di latta inferriate in attesa
luce silenzio
odore di caffelatte
non rimarginano le ferite

*
una voce di den­tro tace
non ha ali e non ci somiglia
percorre futili giorni
rasente alla nostra pelle
negli incavi del cuore
credo si tratti del giorno
in uno spazio di autunno
·          pioggia sparsa di dolore
e noi in pasto al mistero

*
come cenere

un lampo negli occhi
nella pelle nel sangue
srotola semi di attesa
confine di vento
che offusca sconfitte
su erranze  e assenze
come genesi respinta
su radici di quercia
dove fluisce la parola
che traduce gocce fra due luci
·          *
bisbigli di corvi a sera

un andare e ritornare
non sigilla occhi e viso
ma riporta nello stesso luogo
un chiamare per fuggire
è solo scudo con gli occhi
recidere recidere dentro
anche il respiro
aprirsi aprirsi  verso dentro
verso fuori
cecità nella luce di silenzio
follia nel delirio
che ingerga la parola di unisono
·          *
reale e non reale tutto include
*


non esiste verità
apre le sue chiuse
apre le sue rovine
di integrità in un momento
ascolta il rumore del tuo sangue
che stilla oltre l’orizzonte
sogni ombre voli nei tuoi occhi
svanisco  nel gelo
vuoto cigola sui cardini del Nulla
sorsate di sabbia gridi di gabbiani
al tramonto sul fianco di un colle
sopra ogni mutamento salpano
col moto alterno delle onde
ticchettio tregue brandelli di giorno
su pelli strappate al mondo
risuonano nell’incavo della  mano
come di perdita -futuro sparso-
non c’è sollievo
ci curva un peso di tempeste
vivere sul ciglio della strada
ci silenzia una mancanza di luce
eppure il cielo imperla tutti i mari
ma non sfiora voli qui dentro
non schiude corpi la fuori
solo pezzi di memoria
solo parole deformate inganno di vocali
forse  per non soffrire mai
solo sguardi di avversità
per timore di uccidere
epifanie in dissolvenza
un cigolio ci incatena le tempie
·          *
 
non parlo di ieri o di domani

*
un lampo negli occhi
nella pelle nel sangue
ad ogni passo nasco
per una foce che non esiste
ferita attraverso l’ombra
di una condanna
a tratti parole si frangono
in silenzi fino a vene profonde
e mai così nude
la verità si sperde dentro i tuoi occhi
sguardo di sale volto di pietra
scavato nel buio
di terra straniera
*
alle soglie dell’autunno
·          *
si inseguono ombre azzurre
e un po’ di sera
come sogno errante di sparviero
affila questo mio tempo
di meridiane scalfite
assenza compressa
volto di pietra
sangue  che stilla
un’attesa
silenzio che diviene acqua
come marea
nuda la pioggia
molteplice si arrende
alla sabbia
‘*
brucia tristezze un incenso effimero
e non lascia tracce di ore di giorni
annodate al respiro di cenere muta
detriti solo detriti di occhi assenti
asserragliati e non presenti
ti rinnego e trafiggo parole
ma le proteggo con tanto fiato in gola
nel silenzio che mantiene
in ginocchio le parole
accecando stupori e redenzioni
*
intanto tu distorci le palpebre al cielo
in cambio di una gola arida
chnon esiste verità
apre le sue chiuse
apre le sue rovine
di integrità in un momento
ascolto il rumore del tuo sangue
che stilla oltre l’orizzonte
sogni ombre voli nei tuoi occhi
svanisco  nel gelo
vuoto cigola sui cardini del Nulla
·          lancia strali e silenzi di pietra
derubi la luna per un demone
a cui non sfuggirai
·          *
aguzzino di te stesso
e non poeta

*
pelle e verbo dentro una luna d’amaranto
trasportano più in fondo
oltre la morte me pazza
balbuziente e straniera
belva selvatica senza superbia
acqua fuoco terra simile alla mia terra
e non sono se non l’altro


Vi è prima una realtà tragica vissuta in modo allucinato e in cui lei è vinta;poi la stessa realtà irrompe nell'universo della memoria e viene proiettata in una visione poetica in cui è lei con la penna in mano a vincere. Maria Corti


DONNA
                                                                   altra memoria ritrovata

controvento
terra bagnata pareti vuote
luoghi di dissenso
delusi su versi amanti
di bellezza e arcobaleni
attendi una vita
segnata da qualche parte
un destino  di nuvole
un puzzle di fermate
sgomento di piede che non regge
la caduta
dove starà l’amore
pioggia di anestesia
stralci di sogni arresi
rimani in quello che è tuo
attraversi il mondo
con il cuore in gola
finchè vivrai
finchè camminerai
ma con le parole
ne farai memoria
donna
m.a.



Scheda di lettura 
io e il testo


I personaggi
Descrivi i personaggi, secondo il personaggio -guida Esclarmonde, che compaiono nel romanzo di Carol Martinez , mettendo in evidenza personalità e carattere.


riconosci il modo di presentazione del personaggio

  1. presentazione indiretta
  2. presentazione diretta(dal narratore)
  3. presentazione diretta(da un personaggio)



Parole
Indica qui i termini che ti erano sconosciuti e che hai cercato sul vocabolario poi copia la breve definizione che ti è stata data.













Hai colto leggendo alcune specificità che qualificano il tipo di scrittura come propriamente scritta da una donna nei testi proposti?


Se sì, quali sono?

Struttura del racconto

Punto di vista

Ambiente e personaggi

Linguaggio

Modo di raccontare

Parole







Scheda di ricerca

Amelia Rosselli
Cerca e riassumi qui i dati essenziali e significativi della vita dell’autrice e fornisci un breve commento su ciascuna delle opere che conosci dell’autrice.










I temi
Quali temi sono presenti nel testo di Amelia Rosselli?


Si riscontra nelle autrici proposte la passione per la vita? Se sì.motiva la risposta
















Opera
tema
Breve tua riflessione









La lingua 
Lo stile


























B.
RACCONTARSI
§        Descrivi un soggetto da te scelto 
§        Scrivi l’incipit presentandolo in breve.
§        Descrivilo con ricchezza di particolari: fallo vivere, impegnalo in azioni, in circostanze precise, racconta episodi significativi e commenta con tue espressioni.
§        Concludi con riflessioni personali.
§        Usa un linguaggio ricco di aggettivi, di paragoni, espressioni del linguaggio figurato per coinvolgere maggiormente il lettore.
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Registra il tuo ritratto (solo voce o anche filmandoti mentre leggi),
e poi fallo ascoltare a chi vuoi (amici, parenti).
Quali commenti avete fatto tu e le persone coinvolte?


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Potrebbe il tuo ritratto essere individuato come opera di una scrittrice. Se sì, perché?


La messinscena di un testo è sempre una interpretazione di quel testo.Ritieni che allestimenti particolarmente originali funzionino da stimolo per una riconsiderazione critica dell'opera rappresentata. Se sì motiva la tua risposta 



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